Non avrei mai immaginato, un tempo, di riuscire a vivere senza Portogallo e soprattutto senza Lisbona. Su Lisbona mi avrebbero smentita i 10 mesi di Serpa (Alentejo) sul finire dei miei anni portoghesi. Sul Portogallo, invece, mi stanno smentendo anni e anni di Francia e anche di ritorni su Procida. Il portoghese, invece, resiste forte con me, per via e non solo degli incontri che non so grazie a quale cielo ancora mi vengono messi davanti. Forse dura e perdura pure perché il portoghese, come spesso mi hanno affettuosamente presa in giro le amiche strette di Procida, è un po’ nu prucetano stritto.
Una volta, d’estate, un’amica di vicino Lisbona era venuta a passare qualche giorno con me a Procida. Lei non parlava neanche una parola di italiano e un pomeriggio ci trovammo in gruppo in spiaggia a giocare a sette si schiaccia con l’acqua fino alle ginocchia. A un certo punto un’amica procidana si accorse che alla nostra compagna di giochi portoghese si era spostato il costume e mi disse di avvertirla. Io le rivolsi un solerte “arránjate o bikini” che suscitò le risate delle persone procidane intorno a quel cerchio. “Ma che? Le parli procidano? Tu ci prendi in giro che studi portoghese, questo è procidano vero e proprio, non fai nessuno sforzo!” dicevano tra le risate. Ci ritrovammo poi a dover spiegare all’ospite portoghese il perché delle nostre risate. Risate di complicità o assonanze linguistiche, come quelle di mio fratello, quando quasi scoppiò a ridere in faccia al controllore di un autobus che lo aveva mandato ad acquistare il biglietto dal “motorista do autocarro” (l’autista dell’autobus) in una delle volte in cui era venuto a trovarmi a Lisbona e se ne era andato in giro da solo perché io ero impegnata. E niente, certe espressioni portoghesi suonano proprio buffe per noi procidani e le ricacciamo fuori ogni volta che ci ricordiamo di quell’estate dell’”arrangiati u bikini”…
Ho ricordi di sonorità divertenti a Lisbona pure con i miei, di una volta di febbraio in cui vennero ad accompagnare me, finalmente libera dopo settimane di caviglia ingessata, in quella città che si ostinava a essere mia più di qualunque altro posto in quel periodo. Papà storpiava tutti i nomi delle fermate della metro, leggendoli tale e quale a come erano scritti o reinventandoli in modo buffo… “Amma scenn’a Markés de Bombal (Marquês de Pombal), po’ amma cangià e amma arrivà fin a Baiksa-Kiado (Baixa-Chiado)*, diceva divertito, rifacendosi nella testa ad alta voce tutti i percorsi del labirinto metropolitano di Lisbona. Si divertiva molto mio padre, anche a enumerare con aria sorniona e toni canzonatori i pullman con affissa a caratteri cubitali la destinazione di luoghi con altisonanti nomi cattolici come “Calvário”, “Rua da Misericórdia”.
Una sera, lui, mamma e io eravamo seduti al tavolo di un ristorante tipico portoghese del Bairro Alto, l’Adega das Mercês (che esiste ancora) e a un tavolo separato di pochissimi centimetri dal nostro, si sedettero un signore e una signora portoghesi. I due, tra un bicchiere di Montemor e un pezzo di chouriço assado**, parlavano dei fatti loro e ogni tanto si fermavano per ascoltarci incuriositi. A un certo punto ci interruppero e chiesero “scusate, ci suona familiare ma non riusciamo a capirla… Ma che lingua state parlando?” e noi spiegammo che si trattava del procidano. “Ascietteme a parienti” e switchammo dal procidano all’italiano per condividere con loro chiacchiere di fine serata, visto che avevano vissuto per qualche anno a Milano e lo parlavano benissimo.
Si potrebbe pensare che anni e anni di Francia e di assimilation a tout prix da parte dei francisi rischino di cancellarmi il Portogallo e invece… “Conosci i Madredeus?” avevo scritto di recente, qualche settimana prima di Natale alla mia unica collega italiana nella conversazione Skype del nostro spazio italiano, dove ogni tanto, tra una chiacchiera di lavoro e uno spettegoless di shock culturali aziendali, ci scambiamo pure consigli di film, musica, letture. “No”, mi aveva risposto lei “cosa potrei ascoltare?”, comincia da “Guitarra”, le avevo consigliato, aggiungendo poi che i Madredeus non esistono più: si sono sciolti e io non sono mai stata a un loro concerto.
Guitarra me la stavo ascoltando in loop pure io in quei giorni e l’ho riascoltata intorno a Natale. Mi aveva preso come una smania di ricordi, soprattutto dopo aver mandato per posta da Lille alla Germania un augurio di Natale a una cara amica portoghese prima di tornare a Procida e anche dopo le chiacchiere sul Portogallo scaturite dalle domande del mio competente e premurosissimo interlocutore nel dietro le quinte della prima presentazione del libro Amma Cucenà.
Con lui avevo parlato soprattutto di Alentejo e delle braciate post consiglio di classe col personale docente di quell’esperienza.
Riascoltando Guitarra, mi sono ricordata delle volte in cui sono andata a trovare l’amica portoghese in Germania in due città diverse: entrambe le volte, almeno in un pasto dei giorni in cui ero rimasta, c’era stato il baccalà. Mi sono ricordata pure di altre visite ad altre amiche portoghesi, in città, campagne o isole del Portogallo quando ero già in Francia… Pure in quei casi, in uno dei giorni della mia permanenza, per loro era vitale che ci fosse il baccalà… Il baccalà sta al Portogallo come il coniglio a Procida. Il bacalhau e tutta la tenerezza che riescono a suscitare pure gli studenti francisi a non saperlo mai pronunciare. Bacalhau fu, bacalhau sarà… E bacalhau è stato, pure nella cena della vigilia di questo Natale per pochissimi intimi a casa di mia madre… Quello fritto procidano immancabile, ma pure uno portoghese, in versione sbriciolata, ‘ndurata e fritta di pizzelle: le pataniscas de bacalhau, a ricordarmi che, francisi o non francisi, Procida è alla radice, ma ci sta pure Lisbona nei cerchi del tronco.
Ci sono tanti modi per imparare a vivere senza… senza una città, una persona o un animale del cuore, un odore. Ci basta una lingua per nominare le assenze e una musica per vestirle di festa, prenderle per mano e portarcele a spasso tra un sentire vivido, un’emozione sbiadita e l’altra che si ostina ancora a bussare forte. Una musica da cui all’improvviso spuntano pure le parole, proprio come in Guitarra… parole che facciamo fatica a capire all’inizio. Poi le capiamo ed è una canzone tristissima. Ma noi la amiamo lo stesso.
Intanto l’odore della cipolla mischiato a quello del baccalà fa tanto Portogallo, da dove vengono le pataniscas de bacalhau da indorare e friggere. Mentre io devo esercitarmi a leggere le carcioffe ndurate e fritte del libro ad alta voce facendo finta di tenere in qualche modo a bada quel groppo alla gola, fedelissimo e traditore… Puntuale, come i Natali che avanzano inesorabili.
Ingredienti per 4 persone
- 250 grammi di baccalà
- 2 uova
- 6 cucchiai di farina
- Mezzo bicchiere di acqua minerale frizzante
- Una cipollina fresca o un quarto di cipolla
- Uno spicchio d’aglio
- La buccia di mezzo limone grattugiata (opzionale)
- Olio EVO (il fondo di una padella per saltare il baccalà)
- Olio di semi di girasole (deve ricoprire le pataniscas, durante la frittura)
- Pepe q.b (si evita di mettere sale, se il baccalà è ancora abbastanza salato)
- Un ciuffetto di prezzemolo
Procedimento
Dopo averlo dissalato in acqua fresca cambiata regolarmente per almeno tre giorni, lessate il baccalà. Scolatelo, lasciatelo raffreddare, toglietegli accuratamente la pelle e le spine e sfilacciatelo con attenzione. È un’operazione un po’ certosina, fastidiosa e appiccicosa: consiglio di mettere una ciotolina con l’acqua tiepida a fianco, per sciacquarsi ogni tanto le dita. Consiglio anche di avvisare chi mangerà le pataniscas della possibile presenza di spine: nonostante la premura che ci possiamo mettere durante questa operazione, qualche spinella può scappare sempre.
In una padella antiaderente, fate appassire la cipollina nell’olio EVO. Aggiungetevi lo spicchio d’aglio, non appena dorato, aggiungete il baccalà oramai in poltiglia. Soffriggete il baccalà per 5-6 minuti a fuoco medio. Spegnete il fuoco della padella e iniziate a preparare la pastella per le pataniscas: sbattete le uova in un recipiente e aggiungetevi gradualmente la farina e un po’ dell’acqua frizzante mescolando con un cucchiaio o una frusta a mano. Aggiungete poi il baccalà e continuate a mescolare. Aggiungete il prezzemolo tritato e il pepe e il resto dell’acqua. Aggiustate di farina se la pastella è troppo liquida. Quando sono a Procida ed è periodo di limoni, aggiungo anche la buccia di mezzo limone grattugiata, anche se non è prevista dalle ricette portoghesi che ho letto o ascoltato.
Scaldate l’olio di semi in una padella. Quando l’olio è ben caldo, formate tante frittelle con un cucchiao e fatele dorare su ambo i lati a fuoco medio (non troppo forte, altrimenti rischiano di bruciarsi). Fatele asciugare su un po’ di carta assorbente e servitele ben calde.
Nonostante in procidano il suffisso “patan” potrebbe far pensare alla presenza di patate, queste frittelline, a differenza dei più noti pastéis de bacalhau, non presentano patate negli ingredienti. Si tratta di un piatto originario dell’antica provincia portoghese dell’Estremadura (da non confondere con l’Estremadura spagnola) e si mangia sia come “petisco” (che sarebbe un piccolo snack salato) che come piatto, accompagnato da quello che i portoghesi chiamano arroz malandro, al pomodoro, riso un po’ acquoso (al pomodoro).
Mi sa che è la prima ricetta portoghese che condivido sul blog, anche perché è quella che faccio più spesso quando ho ospiti. Spero di riuscire a condividerne altre salate (il bacalhau espiritual o “à bras”) oppure dolci, come la baba de camelo (bava di cammello), il mio dessert al cucchiaio portoghese preferito. Stay tuned 😉
Amma scenn’a Markés de Bombal (Marquês de Pombal), po’ amma cangià e amma arrivà fin a Baiksa-Kiado (Baixa-Chiado)* : Dobbiamo scendere a Marquês de Pombal, poi dobbiamo cambiare linea per arrivare fino a Baixa-Chiado.
Montemor e un pezzo di chouriço assado** : un vino rosso portoghese e un pezzo di una specie di salame arrosto.