A pasta cu ruongo, come un segreto di famiglia (spaghetti al sugo di grongo)

Marzo è stato a tratti molto tosto nella seconda decade degli anni 2000. Spesso e volentieri è stato più che pazzo. Come un fulmine a ciel sereno s’è portato via prima la nonna mamma di mamma e poi, due anni dopo, pure papà. Marzo ammicca e odora di promesse, come la sua primavera, ma noi ormai siamo come san tommaso, non crediamo se non vediamo, non aspettiamo miracoli di sangui sciolti alla san gennaro, abbiamo perso pure la superstizione… che meridionali siamo!? A marzo, noi, camminammo ‘ncòpp’a dd’ove*, ci sentiamo elefanti in un negozio di cristalli… Quel noi, siamo soprattutto mamma e io, che di questi marzi pesanti passati ne abbiamo parlato tante volte, come parliamo quasi di tutto, come ci raccontiamo da quando io ero piccola e fuori casa praticamente non parlavo con nessuno o come quando lei mi parlava e parla ancora di Napoli, Ventotene e pure della sua Sardegna natale tale e come gliel’hanno sempre raccontata.

L’anno scorso ho potuto accompagnare mamma nella sua casa procidana sulla via del primo mese di marzo senza papà, partendo con lei da Lussemburgo, dove avevamo trascorso le feste di Natale e Capodanno con mio fratello e famiglia. Avrei passato a Procida, dopo anni, sia gennaio che febbraio. Attraversare il cuore dell’inverno procidano vuol dire passeggiare con un imbrunire sempre sulla soglia della commozione, annusare fave che iniziano a schiudersi, percepire cardoni e altri tipi di boccioli laboriosi in vista della primavera, accorgersi di pesci antichi per te nuovi che salgono dal mare.    

Dopo i  mesi disperati dei “lasciatemi stare, non mi dite niente, non mi fate domande, lasciatemi sola!”  in cui per le due videochiamate al giorno con mia madre  – “corro corro e torno, col salvadanaio, tiro tiro fuori, quel che basterà!**”, “parla tu che parlo io con la fantasia, parlo io che parli tu, fammi compagnia***”  –  raccoglievo le forze soprattutto tra le note degli Zecchini d’oro di quando ero piccola e papà ci stava, ci eravamo ritrovate io e lei, mamma, a Procida per ridisegnare a forza nuovi equilibri e non sia mai qualcuno a venirci a dire come e cosa dovevamo fare. A figghia femmena, la madre vedova.

Quelli da giugno a settembre furono schizzi e bozze dell’estate delle ferite fresche, delle ombre di sensi di colpa da schiarire, di lacrime e rabbia isolate e condivise. Ma poi è arrivato quel ponte da costruire senza progetti da gennaio a marzo: la casa fredda, l’assenza di papà ancora più definitiva  i miei  “insegnami ad accendere il camino come lo sai fare solo tu” i suoi “stasera perché non prepari il risotto ai finocchi e salsiccia che mi piace tanto” e i piccoli niente di sorrisi ritrovati e visite più serene al cimitero di papà, le nonne, la vicina e un nonno mai conosciuto da non dimenticare.

Mentre attraversavamo quel ponte, un pomeriggio di febbraio – volevamo preparare la zuppa di pesce per cena – mamma chiese a mio zio di andare a comprare il pescato per noi alla paranza. Il fratello di mia madre rispose solerte all’appello e si presentò con una busta piena di cicaredde, suace, cuoccio, lucerna, trigghiozze**** e un viscido serpentone autoinvitato per me prima completamente sconosciuto: u ruongo.

Due ruonghi (gronghi) – Foto dell’ultimo Natale by @Cucenellista

Altra sorpresa, una volta versati i pesci nel lavandino per pulirli: u ruongo era più che vivo e strisciando e contorcendosi se ne vuleva fuì. Pigghia u ruongo, acchiappa u ruongo, tagghiàmmece a chépa cu a fruovece*****, quella scena scatenò risate a non finire e numerosi “comme amma fà?’” tra me e mia madre. Il  coraggio che da sempre mi viene non so da dove nell’affrontare e addirittura prendere con le mani serpenti marini e bisce terrestri e lucertole è direttamente proporzionale alla mia atavica paura delle galline: afferrai il serpentone scivoloso e provai a tagliargli la testa con la forbice. Ma niente, fu quest’ultima a spezzarsi! Dopo una lotta a 4 mani contro il viscidume sempre più agile e guizzante, riuscimmo a stroncare il ruongo e a metterlo in padella col pomodoro e il resto dei pesci per la zuppa. “Mamma, ma che pesce è? Non l’avevo mai visto prima…” chiesi a mia madre incuriosita mentre la pietanza ittica della cena era sul fuoco. “È u ruongo, un pesce che prima era molto povero, di scarto, lo cucinava tua nonna con la pasta quando ero bambina…” “E com’è che non me ne avevi mai parlato e non lo hai mai cucinato?” “Pecché a me, comme u capitone, pure u ruongo me fa schifo”******.

Se non fosse stato per mio zio, io non avrei mai assaggiato quel delizioso pesce nella zuppa. Insistetti, poi, con mia madre, per farmi raccontare bene come preparavano gli spaghetti, ricordi che poi vennero confermati anche dai miei zii e mia zia. Mia nonna veniva da un’isola essenzialmente agricola (Ventotene), non vi era l’abitudine di cucinare cose di mare, fu poi il marito procidano a dirle come preparare gli spaghetti cu ruongo. L’uomo portava spesso dalla moglie gronghi che recuperava come pesce di scarto dai vari rivenditori. Non so se faceva schifo anche a mia nonna, neanche lei me ne aveva mai parlato. I miei zii e mia zia, invece, a differenza di mia madre e un’altra mia zia moglie di un fratello di mamma, apprezzano moltissimo u ruongo, soprattutto con la pasta che preparava la nonna con questo pesce.

Fu così che in quei giorni che si avviavano sempre più luminosi verso un nuovo marzo, dopo tanti segreti di famiglia raccontati negli anni, tra cui quello dell’arrivo della nonna e mamma a Procida, ricordato sempre da papà, venne fuori pure questa ricetta tenuta segreta dopo che u ruongo era stato per anni censurato da mia madre.

Nell’ultimo Natale passato a Procida le ho detto “mamma, facciamo la pasta cu ruongo, lo ammazzo io se arriva vivo” e così abbiamo preparato per la prima volta gli spaghetti al sugo di grongo come li faceva mia nonna materna. Nun ce sta niente a fa, far venire fuori e rielaborare segreti di famiglia rende più consapevoli e liberi. Adesso, poi, disponiamo di una ricetta in più per la Quaresima…. A stare a Procida, ovviamente, pecché a Lille di ruonghi non se ne vedono e non se ne vendono, né morti né vivi.

Ho sorriso una settimana fa quando mia zia (moglie di un fratello di mamma) a cui fa schifo u ruongo mi aveva mandato un vocale “Valè, che schifo, hann pigghiet nu ruongo re 3.5 kg!” per poi sentirmi confermare da mia madre “gliel’ho detto, mo se ci fosse stata lei lo avremmo cucinato”.

Anche se in questo marzo di guerra, costellazioni per me difficili da decifrare e strascichi di pandemia, come direbbero i francisi, on ne sait toujours pas sur quel pied danser*******, sia io che mamma guardiamo ad aprile con ottimismo, progettiamo casatielli di Pasqua e pizzelle di asparagi. Una madre saggia, una figlia adulta. Le libertà parallele che ci insegniamo da anni, i sorrisi ritrovati, poterci contare sempre, i conti salati delle reciproche preoccupazioni della distanza.  

Oggi, 12 marzo, esattamente 3 anni fa, nasceva Amma cucenà. Nasceva nell’anno di mezzo, dopo la perdita dell’ultima nonna, prima di quella di papà. Sono grata per la sua nascita, sotto il segno dei pesci: si è rivelata, in questi pochi anni, una mia personalissima zattera per affrontare ogni tipo di tempesta. La pasta col ruongo è un’ottima ricetta per festeggiare questo compleanno e per ringraziare anche la mia mamma (pure lei del segno dei pesci) per le tantissime ricette che mi aiuta a elaborare o mi trasmette e per tutta la musica che mi ha insegnato da sempre ad ascoltare.

Ingredienti per 4 persone

  • Un grongo (u ruongo)  di 1kg o 1,5kg o 2 di 500 g.
  • Una conserva di pelati da 500 g (oppure, se è estate, 250 g di pomodorini datterini, ma va detto che il grongo si pesca soprattutto d’inverno)
  • Uno spicchio d’aglio
  • 4 cucchiai di olio EVO
  • 2 dita di vino bianco
  • Sale q.b
  • Pepe q.b
  • 500 g di spaghetti n°5 o spaghettoni (prendono bene il sugo)
  • Un ciuffetto di prezzemolo
Ruonghi in tranci – Foto by @Cucenellista

Procedimento

Se vivo, ammazzare u ruongo (operazione piuttosto complessa), pulirlo togliendo le interiora, 

sciacquarlo e tagliarlo in tranci. Mettere l’olio e l’aglio in una padella profonda. Non appena l’aglio si imbiondisce, aggiungere il pomodoro. Cuocere il pomodoro per pochi minuti e aggiungere i tranci di grongo, versando poi anche le due dita di vino bianco per coprirlo.

Ruongo nel pomodoro – Foto by @Cucenellista

Fare evaporare il vino e aggiustare di sale. Finire la cottura per una ventina di minuti a fuoco lento con coperchio. A metà cottura aggiungere il peperoncino. Mentre si finisce di preparare il sugo, mettere sul fuoco l’acqua per la pasta. Nel frattempo, cuocere la pasta, scolarla al dente e saltarla per qualche secondo nel sugo di ruongo. 

Questa è la colonna sonora del post, una delle canzoni che hanno attraversato varie epoche uscendo spesso dalla radio di mia madre. Poi, Amma cucenà è nata sotto il segno dei pesci, come la mia mamma, come  “un’altra vita più  giusta e libera”, ideale che si cerca pure grazie alle archeologie di famiglia.

camminammo ‘ncòpp’a dd’ove*: “camminiamo sulle uova”, indica situazioni incerte, in cui si ha paura di commettere passi falsi, che farebbero rompere metaforicamente le uova. Idea che viene rafforzata dall’ “elefante in un negozio di cristalli”, che non si muove perché ha paura di sbagliare e rompere tutti i cristalli.

“corro corro e torno, col salvadanaio…”** frase della canzone “Il gelataio” dello Zecchino d’oro del 1987. La frase è in rosso perché è un link verso il video della canzone, quindi si può ascoltare.

“parla tu che parlo io, con la fantasia, parlo io che parli tu…”*** frase della canzone “Parla tu che parlo io” dello Zecchino d’oro del 1986.

“cicaredde, suace, cuoccio, lucerna, trigghiozze”****: canocchie, suace, gallinella di mare, lucerna, triglie.

“Se ne vuleva fuì. Pigghia u ruongo, acchiappa u ruongo, tagghiàmmece a chépa cu a fruovece“: Se ne voleva scappare. Piglia il grongo, acchiappa il grongo, tagliamogli la testa con la forbice.

Pecché a me, comme u capitone, pure u ruongo me fa schifo”******: Perché a me, come il capitone, pure il grongo mi fa schifo.

on ne sait toujours pas sur quel pied danser”*******: letteralmente, non sappiamo su che piede ballare, indica una situazione incerta, precaria o ambigua in cui non si sa come comportarsi/muoversi.

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