Mi sono sempre detta che le coincidenze non esistono, che siamo noi a crearle o a volerle trovare a ogni costo. Spesso provo a ignorarle. Ma nell’ultimo anno mi sono dovuta un po’ ricredere e ho come l’impressione che a volte ci sono disegni di architetti invisibili a stabilire una sorta di ordine naturale delle cose, a dare senso a quello che apparentemente non ne ha, a sorprendere, talvolta commuovere e in alcuni casi anche a consolare. Basta rispolverare e raddrizzare le antenne.
Sono capitata a Venezia per la prima volta quando avevo 10 anni. Era primavera, mi portavo nella testa ancora le canzoni dell’ultimo Sanremo di febbraio, che guardavo sempre con mia madre e la più cara vicina di quando abitavamo meno lontano dal cuore di Procida. Una canzone in particolare, presentata da una ragazza all’epoca quasi sconosciuta che avevo già notato qualche anno prima, mi accompagnò durante tutto il viaggio e fino alle soglie della fine della mia infanzia: si trattava di “Bambini”.
Mia madre, mio fratello e io partimmo da Procida per andare incontro a mio padre, all’epoca marittimo su una petroliera, in sbarco a Livorno. Avevamo in programma un viaggio a Milano e vicino Torino, per andare a trovare persone in qualche modo legate a Procida. Come tappe in posti dove non conoscevamo nessuno, avevamo designato prima Firenze, poi Venezia.
Nel capoluogo toscano vi arrivammo di sera, cercammo invano una sistemazione, poi ci rifugiammo a mangiare in un posto dove facevano sia pizza che piatti di vario genere e la bistecca fiorentina. All’epoca non avevo ancora la sensibilità di pretendere di assaggiare le specialità del posto. Non imitai la saggezza buongustaia di mio padre e snobbai la fiorentina: la pizza prosciutto e funghi mi sembrò la scelta più sensata del mondo, anche a Firenze. Per la prima volta mi accorsi che, almeno negli anni ‘80, nel resto d’Italia, la pizza non era come a Napoli…
Mentre cenavamo, chiedemmo dritte per trovare un alloggio al personale del ristorante e ad altri avventori… Ma nulla, quella settimana c’era la fiera del cuoio e Firenze riceveva visite da ogni dove. Ci eravamo mossi tardi. Decidemmo quindi di andare in stazione e salire su un treno che sarebbe partito a notte inoltrata. Destinazione: Venezia e i suoi sestieri.
Arrivammo nella Serenissima con le prime luci dell’alba, in un giorno da subito pieno di sole. All’uscita della stazione Santa Lucia, un nuovo mondo si spalancava davanti ai nostri occhi: dopo una nottata di sonno intermittente, di letti improvvisati con due poltrone di treno espresso allungate, avevamo il privilegio di partecipare al risveglio di una città incantata sull’acqua, con canali attraversati dalle prime barche della giornata e da autobus-vaporetti con a bordo lavoratori assonnati e qualche turista mattiniero. Venezia stupiva grandi e bambini: il fascino della laguna ci aveva messi tutti e quattro d’accordo. Eravamo senza parole.
Un’agenzia che si occupava dell’alloggio dei marittimi in scalo nelle città durante lo sbarco o l’imbarco ci trovò un albergo a Venezia Lido. Lo raggiungemmo in mattinata e dopo aver lasciato i bagagli, tornammo nel cuore della laguna per poi visitare i vari sestieri: innanzitutto, quello di San Marco. Ci trovavamo in un vicoletto di questo sestiere quando i rintocchi di mezzogiorno della Marangona* ci ricordarono che era ora di pranzo. Attanagliati dalla fame, ci lasciammo attirare da un enorme e colorato grappolo d’uva di vetro appeso all’ingresso di un ristorante: Il graspo de ua, per l’appunto. Varcammo la soglia e subito ci accolse un bellimbusto vestito da pinguino che, con estrema premura, ci accompagnò a un tavolo per 4. Il damerino, poi affettuosamente definito da mia madre “Anema longa”, si appostò dietro al nostro tavolo, reagendo solerte alla minima caduta di tovagliolo e a ogni prevedibile svuotamento di bicchiere. Mentre Anema longa ci ronzava intorno riempendo bicchieri e recuperando tovaglioli da terra, mia madre e mio fratello consultavano il menù. Mio padre, senza occhiali per poter guardare la lista dei piatti proposti e i prezzi, progettava ad alta voce ordinazioni di primo e secondo a base di pesce, io giocavo con le posate, sognando con lungimiranza fragole con la panna come dessert. Mia madre e mio fratello iniziarono a scambiarsi calci comunicativi sotto il tavolo… Mio padre ci mise tempo a capire… Io ero fissata con le fragole… : i prezzi erano troppo alti per le nostre tasche. All’epoca non avevamo carte di credito o affini e viaggiavamo praticamente con i soldi contati, che dovevano bastare per Venezia, ma anche per Milano e Torino.
Non avemmo la forza di alzarci e andarcene e ordinammo comunque un primo e, in più, le benedette fragole per me. Andando in bagno, io e mia madre ci accorgemmo delle foto di varie celebrità esposte sulle pareti del Graspo de Ua: tra gli avventori illustri dell’epoca c’erano Baglioni, i Pooh e qualche politico che le mie limitate e mirate competenze di bambina mi impedivano di riconoscere. Come direbbero i miei amici francisi, eravamo come il capello nella zuppa, quattro pesci procidani fuor d’acqua, per intenderci. Mio padre pagò il salatissimo conto e ce ne andammo. Il Graspo de ua diventò una specie di mantra in negativo per lui un po’ per tutto il resto del viaggio, come luogo di un vicoletto di Venezia dove se tutta la famiglia fosse caduta nella tentazione di mangiare primo e secondo a base di pesce ci sarebbe voluto metà del suo stipendio.
Per l’ultima sera in cui restammo a Venezia, ci facemmo consigliare un ristorante da una signora della reception del nostro albergo. Ci ritrovammo in un posticino carino, a Venezia Lido, frequentato da molta gente del posto, di cui ricordo soprattutto il pergolato di glicini del cortile, le familiarissime cicaredd (canocchie) degli spaghetti che mangiammo e cameriere in jeans e maglietta molto gentili e soprattutto, a differenza di Anema Longa, molto discrete. Dettaglio da non trascurare: il ristorante di Venezia Lido era alla portata delle nostre tasche, molto più del Graspo de Ua.
Neanche un mese fa, sono ricapitata a Venezia. Il mio viaggio questa volta aveva uno scopo ben preciso, altro da semplice turismo nella laguna: vedere il concerto di Paola Turci in un teatro di Mestre un venerdì sera. Avevo scelto la data del concerto un po’ per caso, preferendola a quelle di Reggio Calabria e Napoli… Decisione che poi si è rivelata fortunata, perché entrambe le date scartate sono state annullate. Non avevo mai visto Paola Turci cantare dal vivo. Le sue canzoni mi hanno sempre accompagnata in modo discreto. Me le sono sempre ritrovate su musicassette, cd e palaylist, me le sono portate fino in Portogallo, poi in Francia. “Bambini” mi aveva accompagnata nel mio primo viaggio a Venezia. Ogni volta che c’era lei alla radio o in tv non cambiavo mai stazione o canale. Se una sua canzone usciva dall’autoradio proprio quando io dovevo uscire dalla macchina, prolungavo la mia permanenza nell’abitacolo, aspettando che lei finisse di cantare. L’ho sempre citata tra i miei cantanti preferiti. Ma non mi era mai venuto in mente di andarla a sentire dal vivo… Qualcosa, però è cambiato: Paola Turci è diventata la cantante che, cascasse il mondo, andrei a vedere in concerto. C’è stato un evento che me l’ha fatta riscoprire sotto una nuova luce. Un anno fa, nello stesso mese del concerto di Mestre, la più cara vicina con cui guardavo Sanremo da bambina è venuta a mancare in un incidente stradale. Non ricordo di aver mai provato un dolore così grande come quello per la sua scomparsa improvvisa. Non si trattava solo di una vicina, ma di una sorta di vice-mamma, un riferimento femminile importante, un pilastro delle fondamenta della mia cultura (lingua) procidana.
A febbraio dell’anno successivo (quest’anno, quindi), Paola Turci si è ripresentata a Sanremo. Ho ricordato di quando l’avevo vista per la prima volta, restando sveglia fino a tardissimo, nel lontano ‘86. E mi sono tornati in mente i procidanissimi modi di dire della vicina che rientrata a casa sua dopo le esibizioni dei primi cantanti avrebbe potuto esordire “Aser comm a cantet bbell chera figghiuledd… Però hann fatt ascì tropp annott chiri matt” (Ieri sera come ha cantato bene quella ragazza… Però quei matti l’hanno fatta uscire troppo tardi).
Mi sono soffermata sull’incidente stradale che Paola Turci aveva avuto nel ‘93, di cui ricordavo nitidamente le immagini al telegiornale. Ho letto due volte la sua biografia** e ascoltato interviste in cui ne parla. Ho pensato a quanto sono assurdi e ingiusti gli incidenti, a quanto ci disarmano, facendoci sentire impotenti… Vite stravolte o, nel peggiore dei casi, doversi abituare ad assenze definitive così improvvise… Mi sono aggrappata alla sua musica per attaversare il lutto più doloroso affrontato finora. Mi sono detta “lei è viva, ha una cicatrice sul volto e un occhio che ha faticato ad affrontare tutta la luce ma ce l’ha fatta, è più bella che mai e tu hai la fortuna di poterla vedere, di poter ascoltare dal vivo la sua musica che tocca corde profondissime”. Quella fortuna, poi, è diventata dovere e sono andata.
Destino ha voluto che la data del concerto di Mestre coincidesse con la data del giorno dei funerali della vicina un anno prima a cui, sempre il destino o chi per lui, aveva voluto che partecipassi senza troppi intoppi. Pur vivendo in Francia, e pur avendo svariati obblighi, avevo potuto essere presente agli ultimi saluti della vicina, quasi come se fosse stata lei a spianarmi la strada, a volere che ci fossi.
Il concerto del venerdì sera, in quella ricorrenza, l’ho vissuto come un suo dono e in me si è rafforzata la sensazione che gli angeli custodi esistono.
In termini di cose da mangiare, a Mestre, prima del concerto al Teatro Corso, mi sono fermata per comodità – pioveva a dirotto – al Bar Sport di piazza Erminio Ferretto, accontentandomi di un semplice trancio di pizza e uno spritz.
Per Venezia, invece, avevo una lista di dritte – mangerecce e non – stilata da un’attuale collega che nella Serenissima ci ha abitato un anno. Le direi procidanamente ‘n’abbast a ringrazià’ (non basta ringraziare). Il giorno del mio girovagare soprattutto per i sestieri di Dorsoduro, San Marco e San Polo faceva da spartiacque a due giornate di acqua alta. La collega aveva consigliato un bacaro tour*** a fondamenta Nani. Purtroppo, visti i disagi creati dall’acqua alta nella zona, sia l’osteria Al Squero, sia il Bottegon (Cantina del Vino già Schiavi) erano chiusi.
Tra le dritte della collega c’era anche una sosta per un gelato alla Gelateria da Nico, a Fondamenta Zattere, ma quando ero a Dorsoduro avevo più voglia di salato che di dolce.
A ora di pranzo inoltrata, mi ritrovavo in zona Campo Santa Margherita, il posto giusto per seguire questa volta fino in fondo un consiglio della collega e sedermi a un tavolo all’interno dell’osteria Alla Bifora.
La padrona del locale ci mise tempo ad accorgersi di me e a propormi un posto a un tavolo lungo, vicino ad altri avventori e illuminato dalla luce della finestra che prendeva tutta la parete. Per fortuna non avevo fretta, né per sedermi né per ordinare. Quel tempo in piedi mi aveva permesso di osservare le pietanze proposte in vetrina – per lo più cicchetti**** di pesce e taglieri di formaggi e salumi – e i piatti ordinati dalle persone che mi passavano davanti. La mia scelta, al momento dell’ordinazione, ricadde sul piatto apparentemente più gettonato: la polenta con nero e pezzi di seppia (foto illustrativa del post), che accompagnai con un buon prosecco. Il tutto non fu per nulla deludente e servì a rifocillarmi e a farmi riprendere il cammino. Nel pomeriggio feci una sosta alla pasticceria Marchini Time, nel sestiere di San Marco, dove comprai un biscottone con l’uva passa per la colazione del giorno dopo.
La sera, invece, mi spostai nel sestiere San Polo, con l’intenzione di arrivare fino a Santa Croce per trovare l’osteria Filo, consigliatami con enfasi dalla collega. L’acqua alta del periodo, però, aveva avuto un impatto anche sull’elettricità della città, che di conseguenza si ritrovava tanto impoverita nei punti luce quanto impreziosita nel suo fascino. Camminare per i vicoli del sestiere e attraversare ponti quasi al buio ritardava di parecchio i miei movimenti, aumentando la suspense del raggiungimento di posti che volevo vedere, così optai per restare a San Polo e andare alla Cantina do Spade, sempre consigliata dalla collega.
In un vicolo semibuio il locale si metteva in mostra grazie ai giovani che ne affollavano l’entrata con aperitivo e cicchetti alla mano. Entrai a fatica, facendomi spazio tra la folla dell’ora di punta. Una cameriera efficiente e gentile prese la mia ordinazione esitante – troppa scelta – e a confortare l’idea di trovarmi in un posto veramente locale fu la presenza di una veneziana che aveva portato nella cantina tre amiche francesi per assaggiare le specialità del posto.
Un fiore di zucca e baccalà, tre olive ascolane, un gambero con la polenta e una polpetta sempre con la polenta furono i miei cicchetti. Eh sì, la polenta a Venezia la fa da padrona. Semi-solida quella della seppia del mezzogiorno, un po’ più liquida quella della sera. Avevo dovuto adattare il mio tour mangereccio all’imprevisto dell’acqua alta. Ero stata baciata dal sole la mattina dopo il diluvio del giorno prima. Avevo potuto camminare per le strade di Venezia senza stivaloni, coprendomi solo un po’ le scarpe. Avevo parlato con commercianti e ristoratori del problema di quei giorni, dell’acqua che invadeva tutto, creando danni. Tutti mi dicevano che ero fortunata a visitare Venezia in quel giorno in cui l’acqua aveva momentaneamente smesso di salire. E io, anche quella tregua del sabato passato a Venezia col sole la vidi come un ulteriore e preziosissimo dono da qualcuno dal cielo, “come di luce dentro un giorno“.
*Maragona: Il campanile di San Marco ha 5 campane: la Marangona, la Trottier, la Nona, la Mezza terza e la Ringhiera. La Marangona è la più grande e l’unica superstite delle originali. Il suono che si sente a mezzogiorno e a mezzanotte è il suo.
**Paola Turci nel 2014 ha pubblicato un libro autobiografico scritto in collaborazione con Enrico Rotelli, “Mi amerò lo stesso” in cui descrive in modo dettagliato l’incidente stradale a cui è sopravvissuta nel ’93.
***Bacaro Tour: A Venezia si dice ‘andar par ombre’, ovvero ‘andare in giro per i bacari a bere bicchieri di vino’, accompagnati da stuzzichini tipici (polpette, baccalà mantecato…).
****Cicchetti: stuzzichini e snack tipici dei bacari di Venezia
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