A Procida, San Giuseppe è indissolubilmente legato al menerio abbesc a Chiauledd*, quartiere in cui è situato il santuario a lui dedicato. Al menerio sono legati i mie ricordi di bambina e a San Giuseppe quelli dei mei genitori.
Sono stati giorni di caos generale, momenti durissimi per il nostro paese, dove il bilancio per vittime di coronavirus continua a salire drammaticamente. Giorni di routine imperturbabile, almeno fino alla scorsa settimana, in terra dei francisi. Mentre in Italia l’epidemia di coronavirus obbligava tutti a chiudersi in casa, qua, tra quarantena sì e quarantena no, u virus vist e nun vist, manteniamo le elezioni, almeno il primo turno, poi cancelliamo il secondo, tanto nuje simm i francis e u viruss ci fa un baffo, accuoncet e mittet bbuon, alla quarantena, seriamente, ci siamo arrivati 2 giorni fa, alle 12h.
Per molti italiani qui in Francia, invece, vuoi pecché a paur fa 90, vuoi pecché già qualche settimana prima ci avevano cancellato i voli per l’Italia, vuoi pecché non vengo dopo il tg, limitare contatti e spostamenti era rientrato nell’ordine naturale delle cose in contemporanea con l’inizio della quarantena imposta ai nostri in territorio cisalpino. Quindi, quando Macron lunedì sera ha dichiarato “Siamo in guerra!”, l’ansia dell’attesa di questa misura ufficiale, raddoppiata se si era obbligati a prendere trasporti pubblici o a condividere open space con gente che tossiva a cannarone apierto, ha lasciato posto a una specie di sollievo e a una sensazione di mal comune mezzo gaudio, per capirci, uno stamm sott o cielo generale, simm tutt figlie a una mamm (o a unu pat, onore a San Giuseppe e chi sopra di lui), siamo tutti sulla stessa barca. Da “uno Procida residente” a “uno Mondo residente”.
Mentre osservavo votta votta nei supermercati, tutti lanciati sulla carta igienica che nun sia mai a Maronn, avessa fernì (comm amma fa? In barba al virus, mangiammec le mani a morsi, a tenerl u bidet… – è ver? -, cotanta calca mirata forse si sarebbe evitata…) , Amma cucenà, nei giorni scorsi ha compiuto un anno e non ha avuto neanche ‘na zeppuledd per spegnere la sua prima candelina. “Bisogna rimediare”, mi sono detta. Con l’inizio della quarantena mi sono ritrovata – come molti – isola fuori dall’isola e per fare ancora più filo diretto, soprattutto con i miei da Lille a Procida, Amma cucenà, oltre che imperativo categorico, è diventato atto di resistenza – pecché si amma cucenà amma sta a casa e si amma sta a casa amma cucenà – e poi pure una maniera di sbariare, distrarci, la dobbiamo trovare.
Anche il sindaco di Lucera (provincia di Foggia), per obbligare i cittadini alla quarantena, ricorda la ricorrenza di San Giuseppe, pretesto per preparare delle buone zeppole e intrattenersi in casa.
Mano agli utensili e a forni e fornelli, mia mamma si è adoperata nella preparazione di una bella versione delle zeppole di San Giuseppe con crema al limone. Con cura, poi, ha scattato le foto e me le ha inviate. Con altrettanto zelo, ha scritto la ricetta nella finestrella di whatsapp. Mio padre, invece, come al solito, mi ha raccontato aneddoti dal sapore antico, mentre io prendevo appunti su un taccuino buttando un occhio al foglio e un occhio allo schermo della videochiamata su whatsapp. Risate, come ogni volta che dietro alla preparazione di un post per Amma cucenà c’è lo zampino di mio padre che racconta. Mi sono venute in mente le ultime feste di Natale a Procida, quando papà, la sera, davanti al camino, rispolverava tutte le storie legate ai piatti della tradizione di casa sua.
Veniamo a noi.
Il 18 marzo, la vigilia di San Giuseppe, nella zona della Chiaiolella, viene allestito il “menerio”, grande falò. Il rito serale del falò segna il passaggio dall’inverno alla primavera. Mio padre racconta che, prima che si aprisse il lungomare Cristoforo Colombo (un tempo sentiero privato che portava al mare), già da quando lui andava alle elementari, si facevano 2 meneri: uno sopra al Pennino e l’altro in mezzo alla Chiaiolella. Addette all’allestimento e all’accensione, quindi, a squadra ru Pennin e a squadra r’a Chiuledd. C’era grande competizione tra le due fazioni, che non esitavano a rubarsi reciprocamente le fascine o a spiare l’avversario, per assicurarsi di aver fatto il menerio più alto. Gli animatori della squadra della Chiaiolella, sempre secondo i ricordi di mio padre, erano due anziani: a signora Cammela e Sappiniedd. Tra i trasportatori della legna, invece, c’era l’attuale curato della Terra Murata (prima di diventare prete), con la carretta del padre. A lui, si aggiungeva qualche parularo con l’asino. Va ricordato che all’epoca la legna era molto preziosa. Da qualche anno, per ragioni di sicurezza, il tradizionale menerio si prepara in spiaggia, sempre in zona Chiaiolella.
A Procida, quindi, San Giuseppe viene festeggiato il 19 marzo (festa del papà) con il menerio e anche il 1° maggio (festa dei lavoratori), con una processione. La processione parte dalla Chiaiolella per risalire la via del campo sportivo, girare per le Centane, proseguire fino all’inizio della strada che sale a Solchiaro, svoltare per via Simone Schiano, scendere alla Chiaiolella e ritornare nel santuario. La statua del Santo viene portata in corteo accompagnata dalla banda musicale e da bambini vestiti da lavoratori di ogni sorta. Per salutare il Santo, si allestiscono altari, si sparano fuochi d’artificio e mortaretti. Una volta, quando avevo circa 10 anni, anche nella zona di Solchiaro allestimmo un’altare, davanti al portone di un noto medico procidano che mia nonna soleva chiamare il “dottor Cardillo”. L’esperta entusiasta che ordinava “amma parà a ‘ntar” era una zia di mio padre – a zia Maria-, che con tanto di bastone usato per lo più per camminare, dirigeva i lavori con minuziosità, senso estetico e un bel po’ di carisma. Noi bambini, eravamo addetti alla fabbricazione di bandierine. Continui via vai tra noi e Zia Maria, quindi, per chiedere “amm fett bbuon accussì?” Le signore della zona, tiravano fuori le piante più belle dai loro giardini per addobbare in modo ancora più sfarzoso l’altare per il Santo. Al passaggio di San Giuseppe, i mortaretti scoppiati nell’aria premiavano anche la dedizione della Zia Maria per la sua “antar” opera d’arte. Ma veniamo a un’altra opera d’arte, le zeppole di mia madre:
Ingredienti:
- Acqua 250 ml
- Farina 160 gr
- Uova 4
- Burro o sugna70 gr.
- Buccia di limone grattugiata sale un pizzico.
Crema pasticcera:
- Latte 500 ml
- Farina tipo oo 1 cucchiaio
- zucchero 5 cucchiai rasi
- Un po di buccia limone alla fine quando si spegne.
Procedimento
Mettere l’acqua sul fuoco con sugna o burro. Portare a ebollizione. Aggiungere un pizzico di sale nell’acqua di bollitura. Spegnere e aggiungere farina setacciata e la buccia grattugiata di 1 limone. Mescolare bene e rimettere sul fuoco per qualche minuto. Fino a quando il composto non si stacca dalla pentola. Spegnere e aggiungere le uova 1 alla volta.
Rimettere sul fuoco un paio di minuti e spegnere.
A questo punto, mettere il composto in una siringa da pasticciere, foderare una teglia di carta forno e creare dei cerchi. Ogni cerchio dovrà essere sormontato da un circoletto x creare spessore.
Cottura con forno preriscaldato a 200 gradi per 25-30 minuti. Quando sono ben cotte aggiungere zucchero a velo, crema e amarene.
Mia mamma, invece della crema pasticciera, ha decorato le sue zeppole con una deliziosa crema al limone che usa spesso anche per le crostate o come base di torta alla frutta. Ecco la ricetta, inviatami anch’essa su whatsapp.
Buon appetito, tanti auguri ai Giuseppi, Giuseppine, Giusappieddi, Pine, Peppini e Peppinelle e buona festa del papà al mio papà.
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