Il 3 agosto del 2022 c’è stato a Procida un bellissimo evento: un Potluck multietnico ideato da Mara Sanseverino nell’ambito del suo progetto di tesi in antropologia culturale e organizzato insieme all’associazione culturale Procida Coraggiosa. Proprio quella sera, uscivo da una reclusione forzata di dieci giorni per Covid e fui piacevolmente sorpresa da un’esplosione di odori, sapori e dall’entusiasmo di partecipanti e persone venute ad assaggiare tanti piatti diversi. Decisi di contattare Mara per chiacchierare con lei sull’origine di quel bellissimo evento, fortissimo esempio di condivisione, apertura, accoglienza. Potluck, in inglese americano, significa buffet partecipativo: quello che i francesi chiamerebbero auberge espagnole e che per noi corrisponde a “ognuno porta qualcosa”. Ecco, qui di seguito, la bella chiacchierata che ne è venuta fuori, tra voci ai tavoli del bar Cavaliere e suoni della campana della Chiesa alla Marina.
Cucenellista: Come ti è venuta l’idea di questo evento?
Mara: Apro con una premessa: faccio parte di un’associazione giovanile culturale qui sull’isola che si chiama Procida Coraggiosa. Tra i membri dell’associazione ormai siamo molto amici e stavamo facendo un aperitivo al bar Capriccio tutti insieme a maggio, più o meno, e stavamo pensando di organizzare un evento per l’estate che potesse far incontrare le persone, far conoscere l’associazione e così via. Contestualmente, io a maggio sono tornata dalla Spagna, stavo cominciando a lavorare alla mia tesi e in quel momento stavo pensando di farla sul limoncello, sulla produzione locale di questo liquore perché, a quanto pare, non è stato scritto ancora nulla a riguardo. Facciamo questo aperitivo e io metto le mani avanti dicendo “ragazzi, non so se ci sono quest’estate, devo lavorare alla tesi, ecc..”. Poi, mettendo insieme tutte le cose a cui avevamo pensato per l’organizzazione, avevo detto vabbè, dobbiamo fare in modo che il cibo sia il centro di questo evento perché è quello che principalmente attira le persone e sia per esperienza personale – ho partecipato a dei potluck un’estate in cui sono stata in America – sia perché il mio modo di conoscere le culture diverse è proprio mangiando [ride], ho proposto questo potluck, o meglio, una sorta di potluck, perché lo abbiamo aperto anche a persone esterne. Quindi il progetto è nato lì, a tavolino. Poi l’ho proposto al mio relatore e lui mi ha detto “è ambizioso, però vai, se lo vuoi fare fallo”. A quel punto ho scritto il progetto e per prima cosa ho deciso di trovare persone esterne che fossero procidane di adozione e, soprattutto, non di origine italiana, anche per non ritrovare cose un po’ troppo simili. Poi, un po’ tramite il passaparola, un po’ tramite conoscenze di, amici di, mi sono ritrovata con 18 partecipanti che ho intervistato singolarmente, interessandomi alle loro tradizioni culinarie e come queste fossero cambiate dal trasferimento dal loro paese d’origine a Procida e quanto questo cambiamento avesse influito sulla loro identità: identità in quanto persone migranti, identità in quanto persone ucraine, polacche, indonesiane e adesso anche italiane. A quel punto ho chiesto a ognuna di loro “vi andrebbe di cucinare un piatto per far conoscere un pezzetto di voi anche al resto delle persone che vivono a Procida?” e c’è stata una bella risposta!
C: Quindi le reazioni sono state positive da parte di tutti quanti?
M: Sì, io ero molto preoccupata, ti dico la verità, perché innanzitutto pensavo di non trovare persone che fossero disposte a essere intervistate, o disposte a cucinare per un evento e invece sono rimasta piacevolmente sorpresa dal fatto che per molte di loro c’era questo pensiero comune con il mio: voglio assaggiare le cose degli altri paesi perché per me cucinare per qualcuno vuol dire “ti do un pezzo di me, ti do un pezzo di quello che sono”. C’è stato molto entusiasmo da parte loro e poi nell’ultimo periodo ovviamente anche ansia… Pensavo “forse alle persone non piace, non mangiano” e invece poi c’è stata una fila lunghissima…. [ride].
C: Per loro è stato difficile trovare gli ingredienti qui in zona?
M: Tendenzialmente no, nel senso che una delle prime cose che chiedevo a ognuna nell’intervista era “qui li trovi gli ingredienti?”. Parlo al femminile perché le partecipanti erano tutte donne, non volutamente… Questo mi ha dato spunto per un piccolo capitolo sul genere che posso inserire nella tesi. Erano tutte già molto organizzate, chi tramite internet, chi tramite Napoli. Ovviamente a Procida zero, non trovano nulla, tutte loro vanno a Napoli periodicamente o si fanno addirittura spedire i prodotti da negozi online che magari si trovano fisicamente a Torino o in Germania.
C: Osservando queste persone, in cosa il loro approccio alla cucina secondo te è simile a quello procidano e in cosa differisce?
M: Allora, la cosa che ho notato praticamente in tutte loro è che la centralità del cibo soprattutto la centralità italiana del cibo – nel senso, io mi sveglio la mattina “che si mangia per pranzo, che si mangia stasera?” finisci di mangiare…. che si mangia domani? Oppure di che parliamo oggi “ah, tu che hai mangiato?” – tutta questa centralità, ecco, per loro era stata uno shock venendo qua, anche per le persone dell’America Latina o del Nordafrica, che sono culturalmente molto più vicine a noi. Nella maggior parte di loro sicuramente (ovviamente stiamo parlando di persone di parti molto diverse tra loro) il momento del mangiare insieme, perparare insieme era momento di comunità, che ricordano come bel momento e almeno nella mia esperienza è lo stesso, perché per me preparare insieme da mangiare e mangiare insieme è qualcosa che nella mia famiglia si fa sempre e tendenzialmente credo che a Procida o comunque in Italia in particolare questo aspetto è molto importante!
C: L’evento ha avuto molto successo. Secondo te perché? Te lo aspettavi? Ve lo aspettavate quando avete deciso di proporlo?
M: No, io ero pessimista [ride]. Alcuni tra gli altri hanno avuto momenti di titubanza, nel senso che in un primo momento dicevano “Mara, questi vengono a centinaia, è orario di cena, dobbiamo vedere come li dobbiamo gestire!”. Invece io dicevo piuttosto “Ragazzi, Marò, secondo me non viene gente, devo comprare le scatoline per mettere il cibo che resta da parte, eccetera…” Da una parte mi aspettavo che sarebbe venuta gente, però quando alle otto meno dieci ho visto la fila arrivare fino alla TIM ho avuto un momento di smarrimento e mi sono chiesta “E adesso?” Però sono stata molto contenta, perché per me c’è stato un segnale forte di apertura nel voler assaggiare cibi diversi e questo vuol dire già essere disposti ad andare verso l’altro, il che non è scontato.
C: Quali sono state le difficoltà che avete avuto, di tipo logistico ad esempio?
M: Ti dirò, non sono state tante, nel senso che abbiamo avuto un sacco di aiuto: ad esempio “il Guastato” ci ha aiutato senza problemi, Giannicola (che non so se conosci) ci ha dato i tavoli che usa per il catering e non ci ha chiesto nulla… In generale siamo stati aiutati, io la difficoltà che ho avuto è che mi sono sentita addosso tante responsabilità e avrei voluto una squadra più grande a disposizione. Infatti ho già messo le mani avanti e ho detto “se lo rifacciamo (molti vogliono che lo rifacciamo), innanzitutto lo voglio fare fuori stagione, perché vorrei la partecipazione dei procidani e in secondo luogo vorrei più persone ad aiutarmi manualmente a fare le cose.” Ti dirò, forse non penso che abbiamo avuto particolari difficoltà, a parte problemi un po’ con tipografie fino all’ultimo…
C: È bello anche il ricettario che avete fatto!
M: Grazie! L’ho scritto insieme a un mio amico e un altro amico lo ha impaginato. Quelli avanzati li abbiamo messi in vendita da Nutrimenti e alla libreria Graziella.
C: È una bella finestra sulle cucine straniere, anch’io sul blog a volte ne parlo e scoprire ricette di nuove culture è sempre stimolante.
M: Sì, per me è sempre interessante perché il cibo è il primo passo per conoscere una determinata cultura.
C: Questo si ricollega un po’ alla prossima domanda: secondo te in che modo il cibo può diventare veicolo di comunicazione tra popoli diversi?
M: Di base il cibo rappresenta un ponte con cui per me si può attraversare un confine – che è quello della diversità – senza dover parlare la lingua, senza aver bisogno di un passaporto, senza aver bisogno neanche di quell’apertura che ti permette di dire “voglio conoscere questa diversità”.
È una cosa talmente senza sforzo, anche se magari richiede sforzo da parte di chi è molto chiuso, però è una cosa così semplice assaggiare un piatto diverso, e questo ti può aprire potenzialmente un mondo. Nel mio caso, quando ho assaggiato per la prima volta l’hummus e i piatti arabi non avevo minimamente intenzione di studiare l’arabo, però una delle ragioni che mi ha spinto a studiare questa lingua e la cultura araba è stato proprio l’interesse che ho provato nei confronti della loro cucina. Il cibo è una cosa semplice, primaria. Un cantante brasiliano che ha affermato che la cultura è un piatto di pasta e fagioli: questa frase racchiude perfettamente quello che penso. Per me, banalmente, la cultura di un paese, quello che un paese può essere si può riassumere in un piatto, perché ti dice tanto: come viene preparato, come viene consumato, in che occasione. Il cibo di un posto è una cosa così semplice ma che ti può dare così tante informazioni e può rappresentare proprio quel primo passo per far conoscere le diversità, anche a chi magari è molto più restio e spaventato. Il cibo non fa paura rispetto a tante altre cose.
C: Sì e l’apertura o chiusura nell’assaggiare il piatto di un’altra cultura può farti anche capire il grado di pregiudizio delle persone….
M: Esatto.
C: Secondo te, invece, in cosa l’identità procidana può favorire scambi culturali attraverso il cibo? Perché i procidani sono curiosi secondo te?
M: Innanzitutto, perché siamo isolani e gli isolani di base vivono di scambi: a livello culturale, commerciale, per qualunque cosa. Questo elemento della mia identità ho imparato ad apprezzarlo con gli anni: ho capito che il mio essere come sono è legato proprio al fatto che sono isolana. Il legame con il mare è così stretto e il mare necessariamente ti porta a connettere con le cose diverse. Ho mio padre della Basilicata e mia madre di Procida, sono io stessa già a metà. Poi mio nonno, da cui ho preso tanto – lui organizzava la sagra del vino quella vecchia, quella proprio originale e infatti è stata una mano fondamentale la sua esperienza – andando a cercare negli archivi, ha trovato che mia nonna era originaria di Molfetta…. Procida di base è necessariamente aperta, perché l’apertura per i procidani è una questione di sopravvivenza, ci sono le navi che ogni volta ci portano e si prendono le cose: ti devi aprire per forza alla diversità dopo un po’.
C: La cosa più bella che ti ha insegnato questo progetto?
M: Questa esperienza mi ha dato fiducia, facendomi capire che sono capace di organizzare anche cose grandi: è stata una bella scoperta. E poi mi ha sorpreso l’apertura delle persone che hanno partecipato, l’udienza che c’è stata e l’entusiasmo delle persone procidane che mi hanno detto “quando lo rifai?”. Vorrei rifarlo, ma in bassa stagione, perché ci devono essere i procidani. Tutto questo mi ha fatto capire, per quanto negli anni passati ci siano state varie polemiche riguardo queste questioni, che di base c’è apertura. Poi io ho lavorato anche molto con la cooperativa LESS e in questo progetto ho intervistato più di qualche ragazza, ho fatto amicizia con loro e una di loro ha anche partecipato al progetto. Ho capito che i procidani, per quanto siano molto riservati, sono graduali nelle aperture. Questo evento mi ha insegnato soprattutto come far capire ai procidani che loro sono molto più aperti di quanto pensano. Questa cosa me l’hanno detta anche le persone che hanno partecipato al progetto, quelle che vivono qui da parecchi anni e che hanno avuto contatti con le famiglie dei compagni: le aperture ci sono state anche da parte di “insospettabili”, diciamo – nonne, nonni, persone molto anziane.
C: Adesso ti faccio le ultime due domande standard, diciamo: a cosa ti fa pensare l’espressione “amma cucenà”?
M: Che è ora di pranzo e che almeno io e altre due o tre persone ci dobbiamo mettere vicino alla cucina a pensare cosa dobbiamo fare… Poi noi cuciniamo sempre quando si avvicina ora di pranzo… Mi fa pensare alla domenica a casa… E a mio nonno.
C: Potresti dirmi una canzone che associ alla cucina oppure anche a questo evento? La metto poi alla fine dell’intervista. La prima che ti viene in mente…
M: “Amarcord” di un gruppo che si chiama La maschera. Parla un po’ del mare, un po’ del caffè, un po’ di Napoli ed è una canzone che mi rilassa.