Vittorio mi ha raccontato il suo ricco e incredibile percorso. Procida, Puerto Rico, Padova, Miami: vari sono i luoghi in cui lo chef procidano ha potuto arricchire la sua esperienza e alimentare la passione per la cucina. Lo ringrazio molto per aver accettato di scambiare quattro chiacchiere con Amma Cucenà e vi invito a leggerne i dettagli qui di seguito.
Cucenellista: Puoi parlarmi un po’ in generale del tuo percorso? Come hai deciso di dedicarti alla cucina? Quali esperienze hai avuto?
Vittorio: Diciamo che io inizio da giovane. Già dalle scuole medie, d’estate, a Procida, come sai, si va a lavorare nei ristoranti o da qualche altra parte e quindi, nel periodo estivo, ho iniziato a lavorare al L’approdo come cameriere, poi dopo sono passato al Gazebo e da là è nata la mia passione, grazie anche al Pione*, diciamo così, che mi ha fatto amare questo lavoro. Gli “rubavo con gli occhi”, perché a me, più che le persone mi insegnino, mi piace rubare con gli occhi i segreti degli chef. Non ho mai lavorato con Pio in cucina, lavoravo sempre come cameriere, quindi era tutta un’altra cosa, però mi piaceva e già da lì è nata la passione per la cucina. Poi, appena finita la scuola, ho avuto la fortuna di conoscere mia moglie e sono andato a Puerto Rico e lì ho frequentato un corso da cuoco di un anno, in una scuola “pseudo-alberghiera” e poi, sempre lì, ho aperto il mio primo ristorante che si chiamava Pulcinella Café, durato poco, perché avevo 19 anni, mia moglie studiava all’università, i miei suoceri avevano le loro aziende. Quindi, essendo da solo, a 19 anni, inesperto (prima esperienza) dopo un anno, non è andata granché bene, facendo colazione, pranzo e cena. A Puerto Rico e in America in generale, la colazione è uno dei must più importanti dell’alimentazione, quindi ero costretto a svegliarmi alle 6 del mattino e andare a dormire alle 11 di sera, da solo in cucina, dopo un anno so’ scoppiato e ho venduto tutto, rimanendo comunque poi a lavorare nell’ambito della ristorazione, in un ristorante italiano sempre lì in zona, come aiuto cuoco. Tutto questo fino al 2004, quando è nata mia figlia, la grande e che siamo tornati a Procida. Tornando sull’isola, mi sono dovuto reinventare e lì ho iniziato a lavorare, grazie alla famiglia Proietti, in panificio: quindi, sono passato dalla cucina a fare il pane, le pizze e quant’altro. Dopo un paio d’anni lavorando da Proietti, ho cominciato ad amare anche il pane, la panificazione, i lieviti, il criscito e tutto quel mondo che comunque fa parte della cucina. Poi mi sono trasferito a Padova e ho continuato col panificio, perché era il settore in cui lavoravo e per cui era più facile trovare lavoro in quel momento, finché ho cominciato a lavorare negli alberghi ad Abano Terme, come chef de partie**, in un hotel che si chiamava Igea Suisse. Poi, dopo, ho aperto il mio secondo ristorante, a Torreglia, sui Colli Euganei, dove facevo cucina principalmente fusion: un misto tra nord e sud Italia, con risotti o anche con paste della nostra tradizione, come il classico spaghetto allo scoglio, oppure un piatto che mi è rimasto tanto di Pio, che era la scaloppina alla Corricella del Gazebo, con la scamorza affumicata sopra… alcune cose così, più alcuni piatti classici locali.
Ho imparato a fare risotti abbastanza bene – li odiavo all’inizio, perché comunque è un piatto complicatissimo da fare per noi terroni, come veniamo definiti [ride], che poi però ho amato col tempo, perché comunque c’è un’arte dietro alla preparazione del risotto oltre a quella che c’è dietro alla pasta…. poi preparavo i brasati lunghi, il cinghiale, tante altre cose. Finché non ho avuto qualche problema – più che altro non io, ma mia moglie, essendo mulatta – di razzismo lì in Veneto e quindi, quando è nata la mia seconda figlia, abbiamo deciso, 6 anni fa, di ritornare in America. Ed eccomi qui a Miami, dove ho continuato poi nel settore della ristorazione. Ho iniziato a lavorare da Cipriani, uno dei ristoranti italiani più famosi qui in America, come cuoco di linea***, poi ho scalato, diciamo così, la cucina, non da Cipriani ma in vari altri ristoranti a South Beach, a Downtown – a Miami – anche nelle zone sulla spiaggia, fino a diventare executive chef****, una figura che qui fa tutto, meno che cucinare. Perché in America l’executive chef fa più la parte manageriale, quindi più ordini, schedula un po’ gli orari, crea i menù, insegna ai ragazzi… Ed eccomi qua adesso.
Col covid mi sono dovuto riorganizzare, perché comunque con un buon 40% dei ristoranti e degli alberghi si è ancora chiusi e non so quando si riaprirà, anche perché turismo non c’è n’è. Sto lavorando come sous chef***** in un piccolo ristorante italiano adesso, su un isolotto privato dove ci sono le persone facoltose, diciamo così.
C: E fate consegne a domicilio adesso? Come vi organizzate?
V: Sì, si fa molto Uber Eats, si fanno molte consegne a domicilio, principalmente con Uber Eats perché sono le applicazioni più conosciute, quindi si lavoricchia con quello. Ma noi, essendo in un complesso residenziale privato, diciamo, lavoriamo molto con i residenti locali della struttura: sono vari condomini, tipo 700-800 appartamenti, quindi puoi immaginarti.
C: Ho capito. Di quale dei posti che hai citato di questo bel percorso hai il ricordo più piacevole?
V: Beh, diciamo che il mio cuore l’ho lasciato a Padova, anche perché lì avevo il mio ristorante che si chiamava Il Piccolo Rifugio. È stato quando avevo 30 anni, quindi una certa maturità non solo professionale ma anche come persona, però poi non è andata granché bene, anche perché eravamo agli inizi della crisi economica. È lì che, come dicevo, ho lasciato il mio cuore. Poi qui a Miami tutto sommato ho imparato tantissime cose, eh, non è che non ho imparato. Qui ho imparato a fare la cucina latina, la cucina latinoamericana, quindi il mio percorso è un po’ particolare: le mie esperienze spaziano dalla cucina europea del nord e sud Italia, fino alla cucina latinoamericana che comprende, che ne so, il ceviche, i tacos, la quesadilla, la fajita, il mofongo portoricano… Sono piatti molto particolari, belli, poi riadattati in chiave diciamo moderna – che qui siamo ancora un po’ indietro, anche con la cucina italiana, siamo molto indietro, siamo fermi agli anni ‘80, con la pink sauce, vodka e cucine grassose, molto unte, molta crema…. niente a che vedere! Però piano piano, stiamo cercando, le nuove leve, diciamo così, di portare un po’ di modernità anche qui in America.
C: Secondo te, in cosa il tuo essere procidano ha potuto influenzarti nella scelta di diventare chef?
V: Diciamo che noi, comunque, la cucina ce l’abbiamo nel DNA, perché per qualsiasi cosa da piccolo, la mamma o la nonna, il nonno ti insegnano come prima cosa a cucinare, a mangiare. Qualsiasi problema tu hai – lo sai meglio di me – la mamma napoletana, la mamma procidana “ti fa male la testa? Devi mangiare!” “Devi fare que… ? Devi mangiare!”… Qualsiasi cosa è cibo, quindi da lì nasce. Anche dal fatto che io, ad esempio, ero il più piccolo della mia famiglia, quindi stavo sempre con mamma e mamma è una brava cuoca e mi insegnava a fare le polpette, la parmigiana di melanzane, la lasagna napoletana, tante cose… Da lì nasce la passione per la cucina. Quindi poi quel bagaglio te lo porti con te, quelle esperienze, quei sapori… te li porti tutti con te e cerchi di metterli anche adesso nei piatti: per dirti, io ultimamente faccio lo spaghetto alle vongole (foto di copertina, di Vittorio Cerase), però gli faccio un pesto aromatizzato al limone e quindi cerco di mettere i limoni con le vongole, qualcosa che proviene dalla nostra terra, da Procida.
C: E quindi c’è una figura nella tua infanzia che ha un po’ influenzato questa scelta? Dicevi tua mamma…
V: Eh sì, certo, mia mamma. Personalmente, mia mamma è quella che – oltre al fatto della mia follia “culinaria”, perché per creare devi essere un po’ folle – sì, mi ha inculcato l’amore per la cucina, per la musica perché io poi se non ho musica, se non canto, se non sono allegro che mi sentono gridare in cucina quando cucino, che sto cantando, che lo trasmetto agli altri… devo cantare, devo essere felice per poter cucinare tranquillo.
C: Bella questa cosa. E invece in cosa il tuo essere procidano pensi ti abbia aiutato ad adattarti in diverse situazioni e ambienti, nei vari posti dove hai lavorato? Tu hai avuto questo percorso molto ricco: sei partito dal Gazebo, dal L’approdo, poi sei andato a Puerto Rico, poi in panificio di nuovo a Procida, poi nel nord Italia e ora negli Stati Uniti. Hai secondo me una grandissima capacità di adattamento. In cosa l’essere procidano può aiutare in questo?
V: Allora, io per natura devo cambiare, sono una persona che ha bisogno di cambiare. Perché dopo un po’ ho bisogno di nuovi stimoli, di nuove sfide, di nuovi posti per potermi mettere in gioco, per trovare motivazioni, non so come spiegarti. Anche il fatto di trovare nuovi ristoranti per riprenderli in una fase calante e portarli al massimo, oppure aprirli dal nulla: quello che faccio di solito attualmente qui a Miami è aprire ristoranti nuovi o riprendere ristoranti che sono in caduta, cercare di portarli al massimo, poi quando li ho portati al massimo li lascio perché ormai ho fatto quello che dovevo fare e quindi li lascio agli altri o cambio zona. Quindi questo è il mio essere: il non aver radici, perché io personalmente mi ritengo una persona che non ha radici. Le mie uniche radici appunto sono Procida, il nostro scoglio, sul quale ogni tanto mi rivedo da piccolo, giocando per la Via Curato, che era la nostra strada [ride] e però nient’altro. Altri posti dove io possa mettere radici… Noi come famiglia, ad esempio, sappiamo che mia figlia, la grande, andrà al college e deciderà dove andarci. Molto probabilmente andremo tutti via da Miami. Andremo in un altro stato. Qui è troppo latinizzato… A volte mi sembra di tornare a Napoli, perché Miami è molto confusionaria, molto approssimativa… Vogliamo cambiare per qualcosa di un po’ più tranquillo. Qua è troppo caotico anche dal punto di vista della notte, della movida: i ristoranti sono aperti fino alle 3-4 del mattino, sinceramente comincio ad avere un’età [ride] per stare fino alle 3 del mattino in un ristorante a lavorare.
C: Quindi parlavi della famiglia: ci sono piatti procidani che cucini per tua moglie e le tue figlie? Se sì ce n’è uno che preferiscono?
V: Mia figlia per esempio, la grande, più della piccola che comunque ha 6 anni, è una a cui piace tantissimo e mangia soltanto la pizza napoletana. Se le porti un altro tipo di pizza che non sia napoletana diciamo, quindi che non sia cotta nel forno a legna, col bordo alto, la mozzarella, il fiordilatte, non la mangia. Per esempio è anche amante della frittura di calamari, dello spaghetto alle vongole: tutti piatti che comunque ha conosciuto a Procida. Mio padre tutti i giorni andava a pescare con la barchetta, le portava i calamari da piccola, li tagliava, li cucinava fritti e mia figlia impazziva. Quindi quel tipo di tradizione cerchiamo comunque ancora di rispettarlo, così come la lasagna, anche se la lasagna è un po’ più quella originale diciamo, quella bolognese che facciamo qua e non quella napoletana dove c’è un po’ di tutto dentro. Comunque sì, con i piatti cerchiamo di rispettare la tradizione.
C: A Miami le persone conoscono qualcosa della cucina campana oppure conoscono solo la cucina italiana in generale?
V: Di ristoranti napoletani ce ne sono una marea. Come ti dicevo ci sono alcune pizzerie, ci sono addirittura I Fratelli La Bufala.
C: Sì, quelli stanno ovunque, anche da queste parti, a Bruxelles…
V: Esatto. Ci sono vari ristoranti del genere. Il problema è che ti devi sempre adattare a quello che, diciamo, è il mercato locale. Quindi, che ne so, anche se cerchi di rispettare la tradizione napoletana in quanto tale, comunque la fettuccina Alfredo***** la devi avere nel menù [ride, rido pure io sulla fettuccina Alfredo] purtroppo, la fettuccina bolognese la devi avere, perché comunque sono quei must che il popolo e il mercato americano ti richiedono.
C: E poi prima parlavi di questo piatto con le vongole e il limone, quindi forse hai un po’ anticipato la domanda che ti faccio adesso: come racconti a Miami la tua terra in cucina? Come cerchi di raccontarla?
V: Beh, attraverso i sapori logicamente, attraverso le emozioni e i sapori che posso mettere in un piatto, attraverso la mia esperienza che comunque è molto varia, perché come ti dicevo ho vissuto in vari posti e cerco comunque di raccontare attraverso i piatti la mia storia e la mia cultura. Una delle cose che sto riscoprendo ultimamente è la friggitoria classica napoletana, quindi con i panzarotti, con la pizza fritta, cerco di riportare anche alla luce piatti un po’ più datati e che qui non conoscono come il ragù napoletano quello classico. E quando lo fai la gente lo apprezza. La pasta e patate, la pasta e fagioli: faccio degli speciali continuamente, ogni giorno diversi, oltre al menù regolare, per poi far conoscere quello che è la nostra cultura, fare apprezzare i nostri piatti.
C: E gli ingredienti li trovi facilmente? Gi ingredienti per riprodurre questi piatti?
V: Per gli ingredienti è complicato… Li trovi. Li trovi, ma molte volte, per lo meno per il pesce, paradossalmente – guarda, ti faccio vedere dove sono [mostra la finestra alle spalle, affacciata sul mare] sul mare – è difficile, ma qui la gente non ama mangiare pesce, è complicato. Il pesce che trovi per la maggior parte è surgelato, quindi poco fresco e quel fresco che trovi non è dei migliori. Non c’è una cultura di mangiare pesce in quanto tale e per chi come me (o come te) viene da Procida il pesce è alla base della nostra alimentazione. Quindi faccio fatica a volte a ritrovare alcuni ingredienti, però ultimamente si incomincia a trovare quasi tutto, fatta eccezione per i pesci.
Molti dei pesci che abbiamo noi a Procida qui non esistono, siamo in tutt’altro tipo di mare. Tutti i pesci che arrivano, compreso il branzino, l’orata o lo scorfano arrivano tutti dall’Europa, dal Portogallo o dalla Spagna, i pesci nostri non li troverai mai. O capiton per esempio, che potrei fare adesso qua a Natale, non sanno neanche cosa sia. È uno di quegli ingredienti che tu dici “vorrei fare il capitone fritto oppure alla brace” col cavolo che lo troverai da qualche parte, è impossibile. Così come che ne so, il carciofo nostro procidano, una roba del genere, una testa di carciofo come quella non la trovi da nessuna parte, così come la pizza di scarola.
C: Qual è invece il tuo piatto forte?
V: Prediligo fare sempre i primi piatti, quindi pasta principalmente, sono un pastaro di quelli incredibili. Il mio piatto forte è lo spaghetto ai frutti di mare, allo scoglio diciamo così, quello che amo di più fare, perché appunto riporta alla nostra essenza che è quella del mare, di Procida, anche se poi molte volte lo faccio in chiave rivisitata: insieme coi pomodorini gli posso mettere, che ne so, l’ostrica cotta lentamente, quindi si va verso un altro tipo di cucina, un sugo di ostriche sopra, oppure una bisque di aragosta, tanto per dargli un sapore diverso, visto che come ti dicevo i frutti di mare qua non sono quelli nostri.
C: Se una delle tue figlie oppure un giovane in generale volesse seguire le tue orme da grande quali consigli daresti? Quali consigli daresti ai giovani che vogliono intraprendere questa professione?
V: Di pensarci tanto bene, anche perché il nostro lavoro o lo fai per passione e per amore o è meglio non farlo, perché io lo dico sempre: quando gli altri stanno di festa, tu sei a lavorare, quando gli altri sono a lavorare tu stai di festa, quindi è una vita molto solitaria, la famiglia la vedi poco, gli affetti li vedi poco. Quindi di pensarci molto bene. Poi, avendo due figlie femmine, è ancora più complicato per loro sinceramente, anche se il mondo della cucina si sta aprendo tantissimo alle donne finalmente, che sono molto più brave e organizzate di noi in cucina. Io ci ho lavorato con varie ragazze. Una mia ex sous chef, ad esempio, era venezuelana con origini di Pozzuoli (la mamma era puteolana) ed era molto brava, organizzata, pulita, molto più di noi uomini che siamo più disordinati e sporchi in cucina.
Cosa gli dico? A parte quello, se lo vuole fare, di farlo con passione, con amore e di studiare tanto, soprattutto adesso che la cucina va verso, sì, la riscoperta di sapori antichi, ma in chiave moderna, con tecniche moderne. Quindi si deve studiare tantissimo, perché se vuoi essere al top oggi devi avere delle basi forti alle spalle.
C: Una tua qualità che ti aiuta in questo mestiere?
V: La testardaggine [ride] “so’ capa tosta”. E poi, diciamo, il nostro essere napoletani ci aiuta, perché io vedo comunque tanti cuochi anche del nord Italia qui: non hanno quello che definisce lo scatto, quella creatività che abbiamo noi napoletani in cucina. Noi riusciamo a risolvere i problemi, siamo molto più aperti, abbiamo un’elasticità mentale diversa, siamo più creativi. Quindi quello poi ci aiuta nella cucina.
C: L’ultima domanda: oggi dove si possono assaggiare i tuoi piatti?
V: Oggi sto lavorando in un posto che si chiama Amici at Key Biscayne e si trova sull’isola di Key Biscayne, un’isoletta che ti faccio vedere [mi mostra dalla finestra] da lontano: vedi lì in fondo, passi il ponte e c’è un’isoletta. È un’isola privata, anche se comunque ci può andare chiunque. Lavoro lì, ho iniziato adesso che c’è poco lavoro, appunto, lavoriamo 5 giorni a settimana solo la sera e penso che da gennaio, finalmente, dovremmo aprire quasi tutti i giorni mattina e sera.
C: Un’ultima cosa per concludere, che forse sarà pure facile per te che dicevi che ascolti musica mentre cucini: una canzone che associ ai momenti di cucina, da mettere poi sotto l’intervista?
V: [ride] Diciamo che vario: dalla musica più nostalgica, che può essere quella di Pino Daniele, alla musica più moderna, che può essere quella di Ultimo. In cucina cerco di variare quanto più possibile, anche perché sennò mi deprimo e incomincia la nostalgia. Ultimamente mi piace tantissimo ascoltare Ultimo, che è uno dei cantanti giovani in Italia in voga. Se dovessi pensare a una sua canzone direi quella che si chiama Sabbia.
Intervista realizzata in videochiamata Lussemburgo-Miami il 22 dicembre 2020
Pione*: Pio Lauro gestore e chef del ristorante procidano Il Gazebo, che ha lanciato vari giovani dell’isola nel mondo della cucina.
Chef de partie**: lo chef de partie o capo partita. In generale, la brigata di cucina è l’insieme di tutto il personale, sia operatori qualificati che apprendisti, ed è formata da più partite, cioè da team di lavoro con compiti ben precisi. Alla testa di ogni partita c’è un cuoco capo partita, responsabile di quello specifico settore, con uno o più Commis ai suoi ordini.
Per esempio, all’interno di un’unica brigata ci possono essere diversi capi partita: lo Chef Saucier addetto alle salse, alla cottura delle carni in umido, al salto e ai brasati; lo Chef Garde-Manger responsabile delle celle frigorifere e della preparazioni fredde; lo Chef Poissonnier per il pesce; lo Chef Entremetier per le verdure, i legumi e uova (e quindi i primi piatti); lo Chef Pâtissier che si occupa della produzione pasticcera.
Cuoco di linea***: lo Chef di linea o Chef di Stazione lavora direttamente sotto la direzione del sous chef ed è responsabile della produzione di un determinata parte del piatto.
Executive chef****: Lo scopo principale dell’executive chef è la creazione dei piatti, lo sviluppo del menù e la ricerca nelle materie prime, lavorazioni, attrezzature (per maggiori info sulla “Brigata di Cucina” vedere qui.
Sous chef*****: definito anche “chef in seconda”, aiuta lo chef nello svolgimento delle sue funzioni e lo sostituisce in caso di assenza.
Fettuccina Alfredo*****: originariamente, primo piatto costituito da fettuccine condite con burro e abbondante parmigiano. Il piatto, come descritto, venne citato per la prima volta nel XV secolo nel Libro de arte coquinaria, scritto da un cuoco del nord Italia attivo a Roma. Le fettuccine Alfredo furono riscoperte dal ristoratore Alfredo Di Lelio proprio nella capitale italiana nel 1908 o, secondo altre fonti, nel 1914 e divennero popolari negli anni ’20. Le fettuccine Alfredo sono diventate poi un piatto molto diffuso nei ristoranti italoamericani degli Stati Uniti, come simbolo di “italianità”. la ricetta però non è quella del ristorante romano di Alfredo Di Lelio, bensì una variante che comporta l’uso di panna (in sostituzione del burro cremoso previsto originariamente). Nonostante le origini italiane, le “fettuccine Alfredo” sono praticamente sconosciute in Italia. Chi per caso avrà guardato qualche volta il programma Little Big Italy su canale 9, avrà notato la presenza delle fettuccine Alfredo sui menù dei ristoranti italiani negli Stati Uniti.