Per cuoco nostromo di luglio, ho potuto incontrare di persona Carlo Coscione, tra gli chef più apprezzati del panorama gastronomico procidano, e ho avuto l’onore di ascoltare le sue riflessioni sul suo modo di concepire la ristorazione (con le risorse messe a disposizione dal territorio) e di fare la spesa scegliendo con cura ogni singolo ingrediente. Lo ringrazio molto per l’estrema gentilezza e disponibilità e vi invito a leggere l’interessante chiacchierata qui di seguito.
Cucenellista: Mi puoi raccontare un po’ com’è nato il tuo amore per la cucina, come hai deciso di diventare chef e in cosa il tuo essere procidano, secondo te, ha potuto influenzare questa scelta?
Carlo: Allora, il mio primo approccio con la cucina è stato proprio da piccolino: ricordo che aiutavo mamma a fare le polpettine per la lasagna, oppure per la pasta al forno le domeniche in cui non si andava a scuola. Poi, quando dovevo scegliere dove iscrivermi alla fine della scuola media, il primo pensiero è stato l’istituto alberghiero: ho frequentato, quindi, l’alberghiero a Ischia. Questi sono i primi contatti con la cucina, soprattutto le prime cose fatte con mamma.
Per quanto riguarda l’influenza dell’essere procidano nella scelta di questo mestiere, parto da un altro ricordo d’infanzia: da piccolino, la mia pastina in brodo non era con il brodo di carne. Il mio papà non amava la carne e quindi mangiava sei giorni su sette pesce. Mi ricordo che il pomeriggio veniva qui alle paranze al porto, comprava tremila lire di mazzamma (il pesce povero, quello di scarto, quello che molto spesso era invenduto) e poi veniva a casa, lo puliva, lo lavava e lo metteva a bollire facendo una preparazione come quella che si fa per il brodo di carne, quindi con un po’ di sedano, carote, cipolla e poi lo metteva a bollire, lo passava col passapomodoro e ci mettevamo la pastina dentro. Quindi sono cresciuto mangiando pesce da piccolino, dal pesce povero al pesce più nobile. Poi mio padre, quando non navigava – perché era un marittimo – a Procida, molto spesso usciva con i pescherecci, con le zaccalee a pesca. Mi ricordo che quando le barche la notte facevano 2 cale – magari facevano la prima alle 2h e la seconda verso le 4h-5h del mattino – mio padre, come tutti gli altri pescatori, prendeva il pesce della seconda cala, perché doveva essere di 3 ore più fresco. Poi lo puliva già a bordo della barca, lo sciacquava con l’acqua salata, lo portava a casa e magari il mezzogiorno lo faceva fritto o in qualche altro modo e la sera, se avanzava, ed era una sera in cui non si usciva in barca oppure si usciva tardi, a cena mio padre non lo mangiava più quel pesce, perché diceva che era vecchio, che era passato.
C: Sì, pure mio padre era fissato con queste cose…
C: Sì, questo per parlare dell’influenza del fatto di essere procidano nella scelta di fare il cuoco, e di come sono cresciuto io e per parlare del rapporto che un po’ tutti, noi isolani, abbiamo col pesce e con l’idea di freschezza e tutto quanto.
C: Tu hai lavorato per molti anni da Crescenzo: hai notato differenze tra la clientela della Chiaiolella e quella della Marina (dove si trova ora l’Albatros)? Com’è cambiato poi, il tuo modo di lavorare tra questi due ristoranti, se è cambiato?
C: Il mio modo di lavorare non è cambiato, nel senso che adesso ho un’idea mia di cucina, ho una mia filosofia di cucina e quindi quello che facevo prima lo sto facendo anche adesso. Neanche la spesa è cambiata, perché la facciamo sempre e comunque tutti i pomeriggi alle paranze: è fondamentale per noi, almeno per me, recarmi tutti i pomeriggi dal lunedì al venerdì alle paranze e comprare il pesce, quindi sotto questo aspetto non è cambiato niente. I piatti che sto facendo da anni e che comunque mi rappresentano e che parecchie persone sanno che sono miei, tipo la genovese di polpo, tipo il ragù bianco di crostacei e tante altre ricette me le sono portate un po’ dietro e ci tengo pure, perché sono richieste e poi ho un certo affetto per queste ricette.
La clientela non ti so dire se è cambiata, io alla Chiaiolella sono stato tanti anni, una prima volta proprio da ragazzino, da Michele il Bar, posizionato lateralmente rispetto a Crescenzo. La seconda esperienza è stata da Crescenzo. Avevo 15 anni. Ho fatto un periodo di 11 anni, poi sono andato via, ho fatto altre esperienze e poi sono ritornato e sono stato altri 5 anni. Diciamo che da Crescenzo è un locale storico, un’istituzione. A tutte le persone che vogliono fare questo mestiere, consiglio sempre di farsi un giro da Crescenzo, perché veramente ti forma, è una famiglia di ristoratori, hanno sempre fatto quello, fanno quello: da Giovanni, che è riuscito a conquistare una stella Michelin con Libera, Renato che è sempre stato ristoratore, Girone che tutt’oggi è un pioniere vero e proprio della cucina isolana, Franco, i nipoti, c’è Iris che è una sommelier stimata, tutti quanti, sono una famiglia di ristoratori, quindi veramente consiglio a chiunque voglia fare questo lavoro di fermarsi lì, c’è tanto da imparare con loro.
Ricordo che da Crescenzo avevamo clienti sicuramente storici, che ritornavano tutti gli anni perché si trovavano bene per l’accoglienza, per il cibo e tutto quanto. All’Albatros sto da meno tempo, è la seconda stagione, è il secondo anno che sto qui. Abbiamo una buona clientela isolana, il che ci fa molto piacere, perché poi d’inverno, quando il turista non c’è, abbiamo sempre i nostri clienti procidani affezionati e quindi abbiamo il nostro lavoro anche nel periodo invernale. Poi, di clientela di barche che vengono a farsi il bagno, fermarsi a mangiare per poi ritornare sulla terraferma, ne abbiamo poca, perché apriamo solo il sabato e la domenica a pranzo. Invece come clienti serali, il target è sempre quello.
C: Quando sei andato a lavorare fuori, cosa hai portato di Procida lì e poi cosa hai riportato a Procida da fuori quando sei tornato?
C: Quando sono andato a lavorare fuori ero molto giovane: sono stato in Piemonte, poi in Liguria e ho fatto un’esperienza a Roma. Da Procida ho portato sempre il rapporto con la spesa: il legame col prodotto fresco, il mio rapporto con la qualità, con la materia prima, queste sono le cose che mi accompagnano sempre. Ho cercato di fare esperienze per lavorare con la carne, con la cacciagione, cose che noi qui non lavoriamo, quindi ho cercato di arricchirmi soprattutto con queste esperienze con prodotti che qui siamo meno abituati a lavorare.
C: Siamo reduci da un successo agli Europei con la nazionale di calcio. In cucina qual è il ruolo del lavoro di squadra secondo te? Quanto conta?
C: È una cosa fondamentale! Ad esempio, dietro a ogni cuoco stellato o cuoco famoso, sì esce il nome del cuoco, ma se dietro non ha la squadra, non ha la brigata, se dietro non c’è affiatamento e non c’è gruppo, i risultati sì, li puoi anche raggiungere, ma non puoi arrivare a un certo livello. Circondarti di persone che hanno il tuo stesso modo di vedere le cose, che ti capiscono al volo quando si lavora, quando si fa la preparazione eccetera, eccetera è importantissimo, veramente fondamentale…
C: Poi bisogna pure essere veloci..
C: Certo, per noi il tempo è tiranno: ci detta la cottura della pasta, ci dice di non fare aspettare troppo il cliente. L’orario è veramente fondamentale in tutto, quindi va da sé che bisogna anche essere veloci.
C: Prima hai un po’ anticipato la domanda che sto per farti, sulla spesa: cosa vuol dire per uno chef fare la spesa e come è cambiato secondo te e con le esperienze che hai accumulato, l’approccio con questa importante tappa della cucina?
C: Come ho già detto, la spesa è l’abc: tu devi andare in pescheria, devi vedere il prodotto, lo devi toccare con mano. Ti faccio un esempio: io il pomeriggio mi dico “oggi devo comprare questo e questo”, poi vado in pescheria e compro quello che mi occorre, ma poi vedo due-tre cose che mi fanno accendere la lampadina e mi fanno pensare “devo prendere anche questo perché ci potrei ricavare un buon piatto e lo devo provare”. La stessa cosa può succedere anche dal fruttivendolo: vedi una verdura, un frutto, una pianta o un’erba aromatica e molte volte ti si accende quella lampadina, quindi io dico che il cuoco deve recarsi proprio lui di persona in pescheria, dal fruttivendolo, da un’azienda agricola… Il prodotto si deve vedere e toccare con mano, è importantissimo! Poi è ovvio che con l’esperienza, più si va avanti negli anni e più si riesce a riconoscere un pesce se ha mezz’ora o due ore di vita, ti raccomandi col pescatore della piccola pesca che sta in barca quando ti telefona e magari ti dice “ho le triglie di scoglio, ho dei bei caponi, ho preso le palamite”, e tu gli dici di tenerteli nel ghiaccio. Oppure, se c’è un pesce in particolare, gli dici di pulirlo a mare, aggiungendo “trattamelo bene, mi raccomando, mettilo a pancia su” o “a pancia sotto” perché sono tutti accorgimenti che negli anni ti fanno migliorare il prodotto. Conservare il prodotto nel migliore dei modi aiuta a garantire qualità e bellezza.
C: Secondo te c’è ancora qualcosa da mettere maggiormente in valore tra i prodotti di Procida? Magari qualcosa che noi conosciamo bene ma che fuori non si conosce ancora?
C: Diciamo che i prodotti di Procida, dal limone, al carciofo, alle alici, al pesce fresco che abbiamo ogni pomeriggio, sono cose che conoscono tutti. Anche il coniglio, ad esempio, ancora riusciamo a trovare quello procidano, allevato, così come una gallina. Altri prodotti da valorizzare, che gli altri non conoscono, più di questo non credo che ce ne siano: quelli di punta sono questi. Poi ci può essere qualcosina, tipo delle cose che uno magari si coltiva o alleva da sé, ma non necessariamente da far conoscere a qualcun’altro. Quelli che ho citato sono i prodotti che conoscono un po’ tutti e che possiamo continuare a valorizzare.
C: Che importanza rivestono i dolci nelle tue creazioni? Per te è più difficile inventare un dolce o un piatto salato?
C: Questa è una bella domanda, i dolci sono importanti. Prima, quando ho iniziato, specialmente qui a Procida, la carta dei dolci non c’era proprio: magari c’erano solo tartufo nero, tartufo bianco e qualche torta, tipo una torta al limone, una delizia al limone o qualcosa del genere. Poi, pian piano, si è cominciato a fare i dolci e addirittura ad avere una carta dei dolci. Il dolce è importantissimo, nel senso che è un piatto che ti chiude la cena, piuttosto che un pranzo: è il saluto, l’ultimo piatto, magari quello che poi il cliente ricorda proprio perché viene servito alla fine, quindi rimane più impresso – questa è una cosa che noi cuochi diciamo sempre e in fin dei conti è così. Io non amo i dolci molto dolci, quindi, anche se non faccio grandi creazioni di dolci, propongo dei classici, poi faccio dei dolci che ho inventato io negli anni e che mi piace riproporre.
Però tutti i miei dolci non devono essere molto dolci, perché io penso che dopo una cena, qualcosa di troppo dolce magari è stucchevole e potrebbe non fare molto piacere, questo è il mio punto di vista.
C: È vero, anche il fatto che il dolce è la cosa che può rimanere più impressa, non ci avevo mai fatto caso ma pensandoci bene è vero.
C: Sì, sì, lo dicono tutti i cuochi quando si parla di dolci, è la cosa che si ricorda più facilmente.
C: Mi fa pensare che di recente avevo proposto a degli amici di andare insieme in un ristorante tailandese là in Francia che avevo già provato proprio perché il dolce mi aveva colpita molto…
C: Io una volta sono stato per caso in un ristorante a Napoli crudista e vegano, stavamo con la bambina che era piccola, ritornammo da fare una visita e c’era un corteo e pensammo di fermarci invece di inoltrarci nel corteo e non uscirne più, perché la bimba voleva la pizza. Non avevo notato che era un ristorante vegano, crudista e vegetariano, ci siamo seduti e abbiamo ordinato. La bambina ha mangiato una pizza con la mozzarella vegan e le è piaciuta anche e noi abbiamo sperimentato dei piatti che erano in carta, con degli ingredienti che nemmeno conoscevamo, nonostante io faccia questo lavoro. Alla fine ho preso un dolce, una specie di tortino al cacao, tutto crudo, con cocco, una salsa di arachidi e una polvere di barbabietola. L’ho mangiato tanti anni fa e lo ricordo ancora, perché era particolare, mi era piaciuto tanto, era molto colorato, ben presentato… È proprio così: il dolce è il piatto che ti rimane impresso!
C: Tu sei uno degli chef più apprezzati del panorama gastronomico procidano. Quali sono le responsabilità che senti per il fatto che poi rappresenterete tutti quanti la ristorazione procidana nell’anno della capitale della cultura?
C: Ti ringrazio per questo complimento, anche se non penso sia così…
C: Certo che lo è, poi non lo dico solo io, lo dicono tutti!
C: Penso che a Procida, finalmente e per fortuna, abbiamo raggiunto un buon livello di ristorazione, nel senso che prima magari decidevi di scendere per andare a cena, piuttosto che a pranzo, dicevi “dove andiamo?” e magari come proposte ci potevano essere due, tre, quattro locali, adesso invece devo dire che la scelta è più ampia, nel senso che ci sono cuochi che stanno arrivando dalla terraferma e che sono molto bravi, colleghi procidani che hanno uno zoccolo duro di esperienza, che conoscono il territorio, conoscono gli isolani e quindi riescono ad accontentare sia il procidano che il turista.
La cosa che dico sempre ai miei colleghi (ad esempio a quello che lavora attualmente con me) è che noi dobbiamo lavorare sempre bene, dobbiamo essere sempre concentrati, dobbiamo rendere sempre al mille per mille perché poi, se una cosa va storta, il cliente, soprattutto se è isolano, sa che alla guida ci sei tu, ci siamo noi e quindi sanno che se una cosa non è andata bene magari è perché siamo noi in cucina che non abbiamo fatto del nostro meglio. Quindi dico sempre che ci dobbiamo impegnare costantemente, innanzitutto per il locale, per l’attività e poi soprattutto per noi, perché sanno che dietro ci siamo noi.
Nel rappresentare Procida capitale della cultura al livello di ristorazione, la nostra parte è molto molto importante, però alla fine non dobbiamo stravolgere tanto il nostro modo di pensare, di lavorare, nel senso che noi abbiamo una filosofia, abbiamo un’idea, la si deve portare avanti. Probabilmente ci sarà più affluenza, quindi sarà più un problema di gestione, che di cambiamento del tuo modo di pensare e vedere le cose. Perché ti ripeto, ritorno sempre al fatto della spesa: se io il pomeriggio faccio sempre così, che devo andare a comprare il prodotto, lo devo vedere, toccare con mano, lo devo lavorare, non è che dopo, per una questione di maggiore affluenza o perché ho più prenotati, devo cambiare questo modo di vedere le cose, assolutamente no.
C: Come hai trasmesso l’amore per la cucina ai tuoi figli? C’è qualcuno in famiglia che potrebbe seguire le tue orme?
C: Allora, io ho quattro bambini, tre sono gemelli. I gemelli hanno finito la terza media quest’anno e una di loro – Emma – si è iscritta all’alberghiero. Io, da papà, le ho spiegato i pro e i contro del lavoro, le ho detto che dietro c’è tanto sacrificio, c’è anche il fatto che a Procida non abbiamo l’istituto alberghiero quindi per tanti giorni l’anno dovrà spostarsi con i traghetti, fare la pendolare. Però, se lei magari, vedendo me, già inizia ad approcciarsi alla cucina, a voler bene alla cucina, ad amarla, ad apprezzarla, io la appoggerò in tutto e per tutto, perché questo è un lavoro che lo fai solo se ti piace. Quando arrivano ragazzi da me che devono fare lo stage per l’alberghiero dico sempre “ragazzi, adesso magari sapete fare una cosa, ce n’è un altro che ne sa fare due. Il problema non è questo: dovete in ogni caso chiedervi se vi piace questo lavoro. State facendo le prime esperienze, vi piace questo ambiente? Se la risposta è sì continuate, andate avanti, seminate e raccoglierete i frutti. Altrimenti cambiate direzione, cercate un altro indirizzo”, perché questo è un lavoro che o ti piace o non lo fai: devi stare tante ore in cucina, la mente è sempre in funzione, sempre a pensare, a tirare fuori idee. Poi ci sono il caldo, il tempo che ti crea stress, come dicevamo prima. Lavori sempre nei giorni festivi, quindi mentre il tuo amico sta facendo la Pasquetta tu sei in cucina, mentre i tuoi familiari stanno festeggiando il veglione tu magari sei in cucina. Però, se ami questo lavoro, lo fai e non ti peserà mai, è così un po’ per tutti i lavori del resto, ma per questo secondo me un po’ di più.
C: Qual’è la tua creazione alla quale sei maggiormente affezionato e perché?
C: Sono un amante della pasta, un amante del carboidrato. La mia creazione a cui sono maggiormente affezionato è quindi una pasta: lo spaghetto al ragù bianco di paranza (piatto e foto di copertina by Carlo Coscione), innanzitutto perché per prepararlo utilizzo solo ed esclusivamente materia prima di Procida. È un piatto procidano in tutto e per tutto, al 100%. Lo faccio con prodotti che ci sono tutto l’anno, quindi non è che lo propongo in carta a gennaio e poi non ce l’ho a settembre, ce l’ho sempre. È un piatto che è legato al mio nome, quindi in molti, quando vogliono mangiarlo, sanno dove trovarmi. È una cosa molto semplice, però forse ci sono affezionato perché uso prodotti al 100% procidani. È un piatto composto da cicarelle, gambero rosa e mazzancolle, tutto sgusciato, con i carapaci si fa una bisque leggera e poi viene condita la pasta, senza pomodoro, con questo ragù bianco per l’appunto.
C: Qual è il tuo piatto procidano preferito e chi lo cucina meglio?
C: Ci devo pensare… Il piatto procidano che mi piace di più – che poi non è proprio procidano procidano però in molti lo fanno – è il pesce palamito. Molte famiglie lo fanno alla scapece, in agrodolce, magari servito con la cipolla. Spesso lo faccio anch’io, ce l’ho in carta. Quello è un piatto che mi piace tantissimo e lo fa bene mia mamma. Quando lo trovo in carta, in qualsiasi ristorante dove vado, lo ordino. Il palamito in realtà è un pesce che si pesca un po’ ovunque, però lo possiamo considerare procidano, perché ci sono alcuni pescatori che si dedicano proprio a quel tipo di pesca nel periodo dell’anno in cui c’è questo pesce nei paraggi.
C: A cosa ti fa pensare l’espressione “amma cucenà”?
C: L’espressione “Amma cucenà” la associo al mio lavoro, soprattutto a quello. Se invece la vediamo dal punto di vista di cene con gli amici “Amma cucenà” mi fa pensare a una cosa di aggregazione, quando magari ci si riunisce per vedere una partita per stare insieme e si cucina. Perché poi il cucinare, soprattutto se lo fai con gli amici o a casa per coinvolgere tua moglie e i bambini, è una cosa di aggregazione. Magari con gli amici, se il cuoco sono io, “ho la palla” io, ma si possono coinvolgere anche gli altri, tra chi taglia le verdure, chi apparecchia, chi fa un’altra cosa.
C: Un’ultima domanda: io chiedo sempre di chiudere l’intervista con una canzone. Ce n’è una che ti viene in mente da mettere a conclusione di questa chiacchierata? Una canzone che ti fa pensare alla cucina, pure la cucina con la famiglia o al lavoro, la prima che ti viene in mente
C: Forse di Mediterraneo, di Bennato, “Che il Mediterraneo sia”, quella!