Graziella inaugura la nuova rubrica di Amma cucenà: è lei la cuoc@ nostrom@ di ottobre. La ringrazio per aver accettato di scambiare quattro chiacchiere con la Cucenellista sulla sua passione per la cucina e sulle reti che si tessono inevitabilmente con la procidanità anche tra i fornelli.
Cucenellista: Perché hai scelto di fare della cucenella un tuo modus vivendi, quando e come è maturata poi la decisione di farla diventare una professione?
Graziella: La cucenella penso che in realtà è iniziata un po’ come per te, insomma, quando ho cominciato l’Università e sono andata a vivere a Napoli e con gli amici c’era un po’ il divertimento di preparare la cena per gli altri o con gli altri. Quindi la cucenella, soprattutto nei ragazzi del sud Italia che si spostano per studiare, penso nasca in quella fase lì. Poi dopo è diventata un’altra cosa, che però in realtà secondo me parte sempre dall’idea che la cucina possa essere un gesto di affetto e comunicazione.
Quando l’ho cominciata a fare in maniera professionale, penso sia stato un modo per comunicare la nostra terra. Facendo io turismo, lavorando nel turismo e avendo come filosofia di vita – più che come professione – l’ospitalità, ho sempre pensato che la cucina fosse un mezzo importante per arrivare alla chiave di lettura di un luogo, delle persone che lo abitano. Anche io come turista, in realtà, è lì che vado sempre a cercare di aprire il mistero dei luoghi.
C: Quali sono le qualità da avere in cucina?
G: Sono tutte qualità che in realtà dall’esterno uno non immagina. Nella cucina professionale ti devi comportare un po’ in maniera militare, quindi sono importanti tutte le qualità che hanno a che fare con la disciplina, con l’ordine, la pulizia. La cucina è prima di tutto un fatto igienico. Prima c’è tutta una fase creativa, però, poi, quando stai in cucina, devi essere un soldato. Più sei un soldato e meglio ti trovi.
C: Un difetto che invece è meglio non avere tra i fornelli?
G: Non devi essere ansioso e questa è una cosa che tra l’altro non mi appartiene, perché io sono molto ansiosa e infatti ho sofferto molto a volte in cucina. Devi essere sempre pronto a trovarti in difficoltà – perché ti ci trovi – e devi essere veloce nella reazione.
C: Cosa evoca per te l’espressione Amma cucenà?
G: Una casa piena di amici, probabilmente.
C: Qual’è la cosa che trovi più difficile da cucinare?
G: Difficile? In generale la carne perché è una cosa che appartiene molto poco alla mia cultura personale. Però mi appassionano tantissimo le interiora, anche se fanno parte di un mondo che non conosco molto bene, mi piacerebbe approfondire.
C: La cosa più noiosa da cucinare?
G: Non saprei… Tutte le fasi di preparazione a monte sono sempre noiose… tagliare le cipolle, tagliare… tagliare… è un po’ alienante fare tutta quella parte lì.
C: Il tuo piatto forte?
G: Non lo so… Mi vengono particolarmente bene i primi, forse perché sono una pastaiola. Mi divertono molto tutte le combinazioni particolari… Non credo di avere un piatto forte però mi diverte molto fare cose anche inattese. Tipo, per un periodo proponevamo la ricciola con la frutta grigliata. La prima volta che l’ho messa in menù pensavo “la gente me la tirerà in testa”, invece poi è stata compresa, hanno gradito. È piaciuto un sacco, è stato molto apprezzato come piatto.
C: Il tuo piatto preferito e chi lo cucina meglio?
G: A me piace un sacco la parmigiana di mia madre. Mi piace perché lei fa quella là con l’uovo, con la farina. Mi piace davvero molto, infatti durante il lockdown ne ho fatta almeno una a settimana per provare a raggiungerla ma…. E poi per sempre ricorderò il sapore delle polpette di mia nonna.
C: Una figura della tua famiglia che ti ha influenzata in cucina e perché, in che modo ti ha influenzata?
G: No, in realtà non c’è. Perché, a parte la madre di mia madre, in cucina, grandi appassionati a casa mia non ce ne stanno. C’è mio padre che è uno che si lancia, fa le cose, si diverte, però in realtà non è un grande cuoco. Mia madre è una che cucina bene a casa, nel senso che ti fa mangiare bene e ti fa tenere in forma, però è una cosa che non fa con passione, non ama cucinare. Anzi, giustamente, avendo lei lavorato in casa, la vede come una costrizione, ormai s’è scocciata proprio. Quindi no, non mi è stata trasmessa in casa la curiosità per la cucina. È venuta piuttosto dall’esterno.
C: L’espressione procidana che maggiormente usi in cucina
G: Penso “sciuè sciuè”, che poi in realtà rispetto alla cucina, procidana in particolare, di pesce in particolare, secondo me è proprio una chiave di lettura, perché è vero che al pesce, ad esempio, meno fai e meglio è. Le nostre materie prime si prestano molto alla cucina sciuè sciuè*.
C: Un ingrediente che conosci in procidano ma di cui hai difficoltà a trovare la traduzione immediata in italiano…
G: Sono i tier, con cui si fa un piatto che mio nonno adorava e a me piace un sacco, fagioli e tier… però sinceramente non so come tradurlo con precisione in italiano….
C: Le cime della zucca?
G: Esatto. In realtà le usiamo noi e le usano in Sicilia, dove si chiamano tenerume, che però è sempre un’espressione dialettale.
C: Noi a Solchiaro le chiamiamo i tiedd
G: Sì, alla marina usano la ‘r’, a casa mia si diceva tier.
C: Tu hai anche organizzato corsi di cucina. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? E in cosa la tua identità procidana è stata un punto di forza?
G: L’identità procidana è sempre molto apprezzata dai turisti soprattutto del nord Europa. Noi abbiamo un carattere fondamentalmente molto riservato, però poi nel momento in cui c’è un’apertura verso le persone è sempre un’apertura sincera. Questa cosa mi ha aiutata molto, perché entri in un contatto vero con le persone, non è banale, né di scena. In generale, in questo lavoro ho sempre riscontrato una cosa: la gente che vuole interpretare (ci sono anche quelli che vogliono restare in camera a farsi gli affari loro) alla fine apprezza molto la nostra modalità, che secondo me è bella: è discreta, però è verace…
C: Graduale magari anche…
G: Sì, sì, ma soprattutto sincera, senza finzione. Mentre invece in altri posti c’è sempre una parte scenica. Anche per esempio a Ischia, dove sono più scafati di noi col turismo, questa parte di scena è sempre molto forte. Ad esempio, l’altro giorno sono stata in un agriturismo lì, siamo stati a parlare, abbiamo parlato di tutto, lui sapeva che facevamo questo lavoro, però c’era tutta una parte scenica di lui che camminava con i fichi per il prato “li sto andando a seccare”… era tutto un po’ teatrale. Invece qua noi facevamo tutto sempre in maniera più schietta.
C: Dall’albergo, alla cucina al Malazzè come ci si arriva?
G: In realtà dall’albergo, alla cucina, al Malazzè, si passa sempre per una specie di sentimentalismo familiare, perché noi avevamo questo negozio di ristoro delle barche che era di mio nonno. In realtà era della famiglia di mio nonno e lui ci teneva molto che lo tenessimo noi, che rimanesse dei Cerase… queste fissazioni antiche…. Però era molto bello. A un certo punto, tenerlo così chiuso era diventato troppo dispendioso (nessuno di noi va a pesca ecc..), per cui abbiamo avuto l’idea di metterlo sulla piazza commerciale. Però poi penso che siamo riusciti a fare un restauro talmente conservativo…
C: Anche nel nome…
G: Sì, anche nel nome. Il nome, vabbè, conserva proprio tutto il senso. È una parola bellissima, perché accomuna tutti i paesi di mare che hanno avuto un’influenza araba (è una parola araba). Malazzè significa proprio “il negozio dove ristoravano le barche a riva” in arabo, si scrive con la “h”, Malazeh.
C: Dove si possono assaggiare i tuoi piatti?
G: I miei piatti adesso si possono assaggiare all’albergo Sol Calante, dove facciamo una cena molto familiare ogni sera. A colazione la gente sceglie il menù di quello che vorrà mangiare, per cui noi abbiamo una spesa misurata, tutto molto curato nel piccolo. Qualcosina si può assaggiare anche al Malazzè, quando facciamo gli aperitivi. Soprattutto d’inverno io cucino, la domenica a pranzo sempre.
C: Per concludere, scegli una canzone come colonna sonora delle cucenelle (domanda che farò a tutti). Poi la metterò sotto all’intervista
G: Una qualsiasi di Lucio Dalla. Se ti piace Mambo, mi piace un sacco. Non c’entra niente con la cucina, ma la buona musica c’entra sempre.
Intervista realizzata a Procida l’11 settembre 2020
Foto di copertina: paccheri con pescatrice, pomodorino giallo, polvere di taralli – Piatto cucinato e fotografato da @Graziella Cerase.
Sciuè sciuè*: deriva dal latino “fluens”, scorrevole. La “fl” (di fluens) diventa “sc” per un processo linguistico tipico del dialetto napoletano: il latino “floris”, fiore, in napoletano si trasforma in “sciore”; e “flumen”, fiume (per rimanere in tema) in “sciummo”. Sciuè sciuè è una parola di origine napoletana, per definire una cosa che si fa rapidamente, con facilità, senza fatica (l’etimologia completa può essere consultata qui .